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La Cia e il golpe in Cile che rovesciò il governo di Salvador Allende

Le “operazioni coperte” finanziate e realizzate dai servizi segreti degli Stati Uniti per tutti gli anni ’60 non erano riuscite ad impedire l’elezione di Salvador Allende alla guida del Cile. Fu così che nel 1970 il presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, convocò il capo dell’intelligence americana per informarlo che il governo Allende non era più accettabile: furono, quindi, immediatamente stanziati dieci milioni di dollari per operazioni clandestine che prevedevano, oltre alla delegittimazione politica della sinistra, un accordo con quei militari ed esponenti delle forze di polizia cileni disponibili a realizzare un golpe. Tre anni dopo quella direttiva, i militari comandati da Augusto Pinochet rovesciarono nel sangue il governo Allende ed instaurarono un regime dittatoriale, dispotico e sanguinario.



Fino a poco tempo fa, la narrazione dei retroscena del golpe cileno (per quanto ampiamente noti) era in qualche modo patrimonio esclusivo della pubblicistica di sinistra, ovvero di una informazione tanto rigorosa, quanto relegata ai margini del sistema informativo. Adesso gli Stati Uniti ammettono.

 Nel 2000 un documento scritto direttamente dalla CIA ha rappresentato una prima ammissione – seppur tra qualche reticenza – del ruolo svolto dagli USA negli episodi eversivi di quegli anni e nell’appoggio al golpe di Pinochet. Vicende, fino a pochi anni fa bollate come ricostruzioni della “propaganda rossa”, che sono comparse in un atto ufficiale datato 18 settembre 2000 (quindi recentissimo) dell’Agenzia statunitense.

Il rapporto della CIA, c’è da dire, al di là della sua indubbia importanza per l’ufficialità di quanto riportato, non fornisce elementi totalmente inediti rispetto a quelli già noti. Dalle manovre per influenzare la politica cilena, ai contatti con i militari golpisti, all’assassinio del generale Schneider giudicato d’ostacolo per un possibile colpo di Stato, al ruolo (indiretto secondo questo documento) in occasione dell’assalto al palazzo della Moneda. Tutto conosciuto. Eppure il “timbro” della CIA contribuisce a far apparire più grave e più cupa ogni parola che si legge. 

Ma al di là del rapporto, che nella sua essenziale e fredda brutalità è fin troppo chiaro perché debba essere spiegato anticipatamente, quello che è importante, nell’introdurre il documento, è la sua contestualizzazione storica. Perché il golpe cileno ha rappresentato una delle più concrete e determinate applicazioni delle teorie della “controinsorgenza” e della guerra rivoluzionaria, che per oltre un quindicennio hanno ispirato le dottrine USA in materia di operazioni militari e di intelligence. Elaborazioni che, nella loro traduzione operativa, sono state sintetizzate nelle cosiddette “direttive Westmoreland”. E quindi il documento sul Cile può rappresentare l’occasione per una più ampia riflessione, che partendo da ciò che accadde a Santiago, possa spiegare anche gran parte delle “vicissitudini” dell’America Latina, del sud-est asiatico e – in parte – dell’Italia. 

La teoria della controinsorgenza venne elaborata nell’immediato dopoguerra, principalmente come risposta alla vittoria della rivoluzione comunista cinese, la quale aveva indicato come, da un punto di vista militare, la guerriglia rivestisse un ruolo strategico per la conquista del potere, soprattutto nel periodo nucleare, quando le guerre convenzionali cominciavano a mostrare tutti i loro limiti, nel reciproco timore di una escalation incontrollata. 

Per questo i militari USA cominciarono a teorizzare che l’unico modo per sconfiggere la guerriglia era quello di trasformarsi in guerriglieri. E poiché l’Urss aveva cominciato ad impegnarsi nel sostegno dei movimenti di liberazione nazionale (appunto le formazioni guerrigliere) fin dagli anni Sessanta i militari USA cominciarono ad elaborare i piani che prevedevano il loro impiego in “operazioni non convezionali” in tutte le circostanze in cui fosse necessario, anche senza il consenso dei paesi ospiti. 

In questo modo il ruolo della CIA e della Us Army in molti paesi del terzo mondo finì con il diventare decisivo, per regolare le politiche dei governi e l’impiego delle forze armate. In pratica, una sorta di legittimazione politico-strategica per interferire pesantemente all’interno dei paesi alleati. 

Di pari passo, la teoria della guerra rivoluzionaria doveva rappresentare la risposta (uguale e contraria) alla guerra su scala planetaria lanciata dai comunisti, la quale si manifestava – secondo i teorici USA – con ogni mezzo possibile: dalle lotte politiche legittime a quelle violente, da quelle ufficiali a quelle clandestine, da quelle legali a quelle illegali. In ogni modo si manifestassero, le attività comuniste andavano contrastate con ogni mezzo. E bisognava far pressioni sui governi alleati, quando il loro tasso di anticomunismo sembrava divenire inadeguato rispetto al livello di scontro in atto.


Ogni mezzo, contro il comunismo
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Insomma, se la teoria della controinsorgenza era stata elaborata pensando soprattutto ai paesi del Terzo mondo e ai movimenti di liberazione (dietro il nazionalismo c’erano sempre i comunisti, si sosteneva) la teoria della guerra rivoluzionaria serviva meglio a comprendere le dinamiche che si manifestavano in paesi molto più avanzati, dove la rivoluzione comunista avrebbe potuto vincere anche senza l’appoggio delle masse contadine e dei guerriglieri. 

La sintesi delle due teorie, come detto, era stata in qualche modo riassunta nelle direttive del generale Westmoreland (capo delle forze armate americane in Vietnam) il quale a sua volta aveva aggiornato le elaborazioni dei suoi predecessori in materia di operazioni di intelligence, di “stabilizzazione” e di guerra psicologica. In estrema sintesi con le direttive Westmoreland veniva spiegato ai militari come contrastare “sul campo” e anche in maniera spregiudicata l’avanzata comunista, come utilizzare il terrorismo e l’infiltrazione a favore della stabilizzazione, come controllare, infine, forze armate e governi dei paesi ospiti. Questa era la filosofia.

 La rivoluzione cinese prima, poi l’Indocina e poi l’espandersi dei movimenti di liberazione avevano convinto i militari USA (e un nutrito gruppo di esperti militari non americani ma di provata fede atlantica) che il comunismo aveva scatenato una guerra non convenzionale contro l’occidente. Una “guerra non ortodossa” e in quanto tale anche occulta e subdola. Si doveva rispondere con gli stessi mezzi: attrezzandosi ad una “guerra non ortodossa” di lungo periodo. Non è un caso che proprio in questi quindici anni – tra il 1960 e il 1975 – nelle zone sotto il controllo diretto o indiretto degli USA si verificarono decine di golpe o di tentati golpe. La CIA e i servizi di intelligence della Us Army svolsero un ruolo decisivo. E quindi il Cile, nel 1973, non fu altro che la tragica conclusione di un “ciclo” che aveva visto le sue massime espressioni nel 1963 in Vietnam, l’anno successivo in Brasile e ancora la Grecia del 1967.


In quelle teorie c’era la spiegazione generale di ciò che, localmente, i vari emissari USA concordavano di volta in volta e con modalità diverse con i singoli generali (o colonnelli) o con le varie organizzazioni. Il rapporto della CIA sul colpo di Stato in Cile, quindi, non va visto come la narrazione di una serie di avvenimenti accaduti “eccezionalmente” al termine di una drammatica crisi, ma come il paradigma di una concezione della politica nella quale la lotta al comunismo ha rappresentato la giustificazione (e talvolta l’alibi) per ogni tipo di intervento e per l’appoggio a quei regimi dittatoriali (come spiegato nelle “direttive Westmoreland”) i quali pur non garantendo “libertà e democrazia” per i popoli, andavano tuttavia sostenuti per i loro meriti di intransigenza anticomunista, così come è accaduto per decenni in America Latina.

 L’ultima considerazione riguarda l’Italia: l’ex ordinovista e agente dell’intelligence militare USA Carlo Digilio (uno dei principali e più attendibili testimoni nelle inchieste sulle stragi in Italia, ndr) ha spiegato come la “strategia della tensione” non fosse altro che il risultato dell’applicazione concreta – seppure oltre il necessario – delle direttive del generale Westmoreland, che da teoria generale venivano tradotte operativamente dai vari colonnelli e capitani assegnati ai comandi asiatici o africani o europei, o tedeschi o italiani. 

Ciò nonostante, quando tempo fa la relazione presentata in commissione Stragi dall’onorevole Valter Bielli ha chiaramente indicato (sulla base di un’imponente documentazione perfettamente coerente al quadro teorico qui spiegato) le responsabilità atlantiche nella “strategia della tensione”, si è preferito gridare allo scandalo, alla bestemmia, piuttosto che confrontarsi seriamente e cominciare a ricostruire, in un quadro unitario, ciò che ha rappresentato per molti paesi l’applicazione delle teorie della controinsorgenza e della guerra rivoluzionaria; ciò che hanno concretamente rappresentato le direttive Westmoreland.


Eppure la vicenda del rapporto della CIA del 18 settembre 2000 sul golpe in Cile può insegnare qualcosa: la più famosa Agenzia di intelligence USA ha dovuto presentare la sua relazione, perché così le aveva chiesto il Congresso USA, dove era stato approvato un emendamento presentato il 13 maggio 1999 dal parlamentare democratico Maurice Hinkey, sensibilizzato dalle inchieste del giudice spagnolo Garzòn sui crimini di Pinochet e le connivenze statunitensi.

 Ci sarà mai un emendamento approvato dal Congresso che obbligherà la CIA (o meglio la cosiddetta “comunità di intelligence” composta da numerosi organismi) a presentare una relazione su piazza Fontana e la “strategia della tensione”? 

In Italia, fortunatamente (nonostante vari tentativi) non c’è stato un colpo di Stato, né l’instaurazione di un regime sanguinario lontanamente paragonabile a quelli dell’America Latina. Ma ci sono stati molti morti. Innocenti che viaggiavano in treno. O si trovavano in fila in una banca o a manifestare in piazza contro la violenza fascista. Anche loro e i loro parenti, forse, meritano la verità.

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