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Baby gang, la psicoanalista Pigozzi: «Ragazzi iper stimolati dagli adulti, è l’epoca dello sballo»

Laura Pigozzi è una tra le voci più autorevoli a livello nazionale, nell’interpretazione delle questioni famigliari. Ha dedicato il suo ultimo libro “L’età dello sballo” (Rizzoli, 2024), ai giovani, per aiutarci a capire la radice del loro disagio, da cui scaturisce anche la violenza delle baby gang, fenomeno ormai critico in città.

Ne parlerà domenica 15 settembre alla Ghirada di Treviso alle 10. 30 per l’incontro “Genitori e figli tra conformismo e dipendenza”.

Pigozzi, qual è l’età dello sballo?

«Si sta abbassando sempre di più, abbiamo puberi e prepuberi che iniziano pratiche di sballo tra le mura domestiche, con sostanze a portata di mano come inalanti, decongestionanti, collutori, dentifrici, lacche per capelli, vernici spray, ma anche integratori energizzanti».

Perché sentono il bisogno di sballare?

«Questa è l’epoca dello sballo, un’epoca dopaminica, in cui si cerca continuamente di essere super-eccitati e super-stimolati. Se noi teniamo i nostri bambini sempre stimolati, senza farli mai annoiare, li prepariamo ad essere consumatori di sostanze. Anche perché l’indipendenza dei figli non è un valore coltivato oggi, siamo molto controllori rispetto a cosa fanno, e questo non li aiuta a fare affidamento sulle loro forze e a fidarsi di sé stessi. La dipendenza e l’iperstimolazione li porteranno a cercare divertimenti sempre più dopaminici».

Questi fattori sono legati anche alle pratiche delle baby gang?

«Le baby gang sono un modo distorto di fare gruppo, si identificano come una famiglia e sono caratterizzate dall’amore per il capo e dalla contrapposizione con l’esterno. Si privilegia chi è dentro al clan da chi è fuori, c’è odio per l’alterità, in varie forme, lo straniero, le persone fragili, le regole di convivenza».

A Treviso aggressioni, rapine, risse, avvengono in centro storico e alla luce del sole o delle telecamere, anzi loro stessi si riprendono: non si rendono conto delle conseguenze?

«Oltre alla ricerca di eccitazione, un altro aspetto da tener presente è neurologico, perché nei minori la corteccia prefrontale, che regola i limiti, non è ancora completamente formata, per questo agiscono d’impulso. La funzione della corteccia prefrontale la dobbiamo fare noi adulti, che però siamo presi da un delirio educativo in cui domina la paura del conflitto con i nostri figli. Ascoltarli non significa fargli fare quello che vogliono e non dire mai di no. Far presente le conseguenze delle loro azioni significa stabilire il confine, se non c’è più progetto educativo non c’è più confine».

Cosa possiamo fare?

«Considerando che durante l’adolescenza il livello base della dopamina è più basso di altre età, ma il rilascio della dopamina rispetto alle esperienze eccitanti è maggiore, i ragazzi hanno bisogno di noi come educatori e non come amici che giocano con loro e li trattano da bambini, altrimenti per dimostrare che sono grandi praticano attività criminose, perché una indipendenza vera non gli è stata mai passata».

Quando un ragazzo viene identificato, le famiglie o sono stupefatte o chiedono aiuto alle forze dell’ordine perché non sanno più come tenerlo: davvero sono così disorientate?

«Che ci sia un tipo di reazione o l’altro, hanno la stessa radice: noi i figli invece di educarli ce li godiamo. Quante volte sentiamo dire “adesso mi godo un po’ mio figlio”, questo godersi i figli è il contrario di educarli, perché stabiliamo una relazione di godimento non di educazione. Dirsi “ti amo” o darsi baci sulla bocca, dormire nello stesso letto, sono comportamenti sdoganati e diventati una normalità. Se noi non tracciamo un confine tra le generazioni, il bambino si crede un adulto che può fare quello che vuole».

C’è speranza?

«Sì, c’è speranza ma dobbiamo rimboccarci le maniche. Bisogna fare quello che non si è fatto, mettere limiti e paletti, porre i ragazzi nella condizione di tollerare le frustrazioni. Se dopo un brutto voto andiamo subito dal professore a contestare, il ragazzo non imparerà mai a fare i conti con la frustrazione. Dobbiamo avere coscienza del nostro essere genitori, dobbiamo farci odiare un po’, perché se non lo facciamo non creiamo adulti ma persone dipendenti».

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