L’entroterra Ligure, moderna Arcadia
Lorenza Russo, glottologa, scrittrice di cultura alpina, di escursionismo e di tutto quanto faccia natura, è categorica: «Camminare in natura è un viaggio alla scoperta di un mondo sconosciuto, velato per tradizione, ma anche per la sua propria essenza da un’aura di impenetrabilità. E quest’atmosfera la ritrovo tutta nelle montagne liguri, nel punto esatto dove finiscono le Alpi e inizia l’Appennino».
Già collaboratrice di Alp e storica firma dell’accattivante La Buona Neve dell’indimenticato Rolly Marchi “cuore trentino”, per Lorenza Russo «la montagna e il bosco rappresentano un invito alla conoscenza di un ambiente naturale di indubbia suggestione, che è stato innanzitutto luogo storico in cui l’uomo ha stabilito il primo contatto con la natura incolta». Poco più di dieci anni addietro una prestigiosa casa editrice milanese, la Hoepli, elevò la passione di Lorenza a dignità letteraria con “Camminare in montagna” nel 2008 e “Camminare nei boschi. Il bosco italiano: folclore, natura, tradizioni e itinerari” nel 2012. Un tocco di rigore tecnico-scientifico fuso con un approccio spiccatamente poetico e fantasioso, degno di una dichiarazione d’amore, con cui Lorenza Russo sublimava i boschi nella storia, nelle leggende e nelle fiabe, analizzandone la vegetazione, i frutti più celebri, la fauna e la flora.
Lorenza, hai scelto la Liguria ed il suo meraviglioso entroterra, ma in realtà hai “fatto pratica” altrove…
«Francese di nascita, milanese di adozione, ampezzana per frequentazione familiare, le montagne sono nel mio Dna, soprattutto quelle della conca ampezzana, ritenute le più belle del mondo. Nei lunghi anni dolomitici ho calpestato chilometri di sentieri e percorso migliaia di metri di dislivello, e chissà dove sarei arrivata se non mi fossi fermata ogni volta, se avessi continuato a camminare senza tornare a casa, giorno dopo giorno, salendo metro dopo metro. E nei boschi che fanno da corona ai Monti Pallidi ho trascorso lunghe ore solitarie, in ascolto e in silenzio come in un tempio».
Da come descrivi quel periodo pare immaginarti parte della natura dolomitica!
«In effetti vivevo in simbiosi con la valle d’Ampezzo! Ho inalato essenze balsamiche, raccolto pigne, incontrato caprioli, tassi e vipere, mi sono messa pancia a terra per cogliere, senza romperlo, un porcino che era cresciuto attaccato ad una ceppaia. Alla sera avevo le unghie nere, il profumo di muschio addosso e le formiche ovunque. Ho immaginato fauni, ninfe e spiriti ancestrali, mi sono persa e ho avuto paura del buio. Ho esplorato così a lungo le Dolomiti quasi da sentirmi dolomitica anche io: una guglia alta e sghemba che si guarda intorno assorta».
Ah, le Dolomiti ampezzane…
«Quel mio amore giovanile per la conca fu trasfuso nella pubblicazione della mia tesi di laurea sulla toponomastica ampezzana: studiare i nomi di una zona è un modo affascinante di avvicinarsi alla cultura locale, perché i toponimi non sono mai stati dati a caso, ma anzi rispecchiano una realtà storica e geografica non sempre evidente ad uno sguardo distratto. Quella ricerca universitaria approdò in 40 itinerari per buoni escursionisti, ma anche per semplici passeggiatori in erba».
Poi, a un certo punto una radicale inversione di bussola!
«Dal nordest mi sono trovata nel nordovest dell’Italia e ho messo altre radici in riva al mare. Anche se era ovvio che gli avrei voltato le spalle, in cerca di nuove cime da esplorare e di altri boschi di conifere in cui perdermi».
Hai lasciato Milano per borghi sperduti. Bel coraggio…
«Sarò per sempre grata alla città nella quale ho vissuto per trent’anni, che mi ha formato culturalmente e professionalmente, ma occorreva mettere un punto e ricominciare altrove. “Milanomare. Itinerari alternativi da Milano alla Liguria”, del 2015, in un certo senso spiega questa palingenesi: le mie divagazioni appenniniche tra Lombardia e Liguria sono state precedute da eterne letture dell’Atlante stradale, per inventare un nuovo percorso ottocentesco verso il mare…Ho imparato che un centimetro di strada della scala 1:200.000 può tradursi, nella realtà, in mezz’ora di guida su asfalto sconnesso, spesso senza parapetti e senza indicazioni».
Utilizziamo il titolo di un tuo libro: “Oltremare. Di valle in valle nel Ponente estremo”.
«L’estremo Ponente ligure è un regno arcaico di paesi di pietra in bilico su pendii brulli grigioverdi e su distese tremolanti di ulivi d’argento. Fermo ad un suo tempo interiore, immutabile. È un affresco in una chiesa campestre, un polittico prezioso, un Giudizio universale terrificante, un ponticello a schiena d’asino, un torrente che scava una forra. È una torre di avvistamento puntata verso il mare, una meridiana dipinta, è una rete di castelli diroccati. È rito ancestrale per celebrare il passaggio delle stagioni, flusso denso di olio dorato, processione di flagellanti incappucciati, fascio di erbe selvatiche raccolto da streghe sapienti».
In questo orizzonte paesaggistico, montagna e mare sembrano fondersi…
«Continuo ancora: l’estremo Ponente ligure è filari di viti messe a dimora sulle fasce dei benedettini che hanno inventato la pianura in un mondo verticale. È un lembo di terra strategica conteso da sempre, una strada militare sulla cresta delle montagne, è la neve delle Alpi più vicine al mare, una via del sale che si arrampica sui crinali, un sentiero tra le spine per i contrabbandieri, un borgo attraversato dalla transumanza, una pecora con le corna a ricciolo. È un artista di Bussana, una parrocchiale scoperchiata dal terremoto, è ardesia, un passaggio voltato, una partita di pallone elastico. È la sabbia fine, gli alberghi Liberty sulla spiaggia, il Festival della canzone italiana. Lì, dove l’Italia finisce. È palme e fiori, è l’arco del sole, l’attesa di un confine. È distanza. È dialetto imperiese, lingua brigasca, cucina bianca, pane di Triora, bruss, baci di Alassio, stròscia e piscialandrea. È il Far West».
Far West come rappresentazione di immagini cui la cinematografia ci aveva abituato?
«Quanti bivi senza cartelli, quanti cartelli arrugginiti e quasi illeggibili. Ho attraversato e visitato decine di piccoli paesi e borgate, alcuni abbandonati, altri vivi di gente. Mi sono fermata in bar, trattorie, su una panchina, vicino a una fontana, sul sagrato erboso di chiese campestri. A volte ai margini di una strada, mangiando quello che mi ero portata da casa. Ho appoggiato la schiena ai muri caldi di sole. C’era un silenzio arcano e profondo».
Allora il mitico Colle di Cadibona, spartiacque tra le Alpi e gli Appennini, rappresenta una sorta di palingenesi paesaggistica e interiore, pare di capire…
«Un mare di colline mi attrae tra le sue onde verdi che sbattono su rocce purpuree e calanchi vetrosi. Come gabbiani bianchissimi, minuscole chiese si appoggiano sulle alture, visibili da lontano e segnano uno dei tanti orizzonti di una landa solitaria bagnata da fiumi e torrenti in discesa verso la pianura. Per questo mondo di mezzo, dove l’Appennino abbozza le sue prime forme, non ho un nome. O meglio, ne ho tanti, Bormida di Millesimo, Bormida di Spigno, Alto Monferrato, Alta Langa, valle dell’Erro… Mi ha stupito, calmato, sedotto e rigenerato. Si è materializzato, come d’incanto si è disegnato sull’atlante che tengo sempre in auto».
Sei una cantrice della Val Bormida!
«Così la descrivo: “Ispida di latifoglie sonnecchia distesa tra Liguria e Piemonte. I venti, che dalla galleria di Melogno si incanalano nell’Oltregiogo, fanno fremere la cresta di antiche rocce che separa il ramo occidentale da quello orientale e tengono in allerta i lupi, che in ogni sbuffo d’aria annusano richiami e minacce”. Con tono fiabesco, mi sono immersa per raccontar una valle poco conosciuta e frequentata, percorsa soprattutto per arrivare sulla costa o per raggiungere le Langhe. Distesa tra Liguria e Piemonte, la Val Bòrmida è innanzitutto un luogo di fascino, immerso in un suo tempo interiore, per scoprire bellezze dimenticate e raccontare storie antiche».
Il Finalese è la tua Arcadia…
«Il viaggio dalla costa verso l’interno mi conduce a ritroso ad un mondo soffuso in una dimensione temporale indefinita, che non è più solo oggi. Il Finalese sta lì, sospeso tra l’orizzonte liquido e la catena dei Monti Liguri, un luogo con le forme del tempo. Rappresenta la bellezza di una natura dolce, placida e arcaica che mi ha tolto il fiato e per qualche anno ho visto solo sentieri e pareti di roccia, grotte, boschi e torrenti, fiori, cespugli e rocche affusolate. Oggi cammino volentieri vicino ai borghi di pietra, mi piace carpire frammenti di queste vite appartate, che a volte sembrano quasi ferme in una foto color seppia. E’ diventato un teatro in cui vanno in scena i racconti di chi lo ha abitato prima di me».
Un nuovo equilibrio, questa volta “mare-monti”.
«Non solo da un punto di vista geografico. Il Finalese è vita di mare, di arrampicata, di passeggiate nella macchia e di borghi medievali, ma è soprattutto un luogo in cui c’è sempre tempo per fare altro, perché il territorio è compatto. È un mondo declinato in una varietà di paesaggi che si armonizzano ai diversi toni dello spirito e avvolto in una dimensione temporale insolita e affascinante. È una realtà che si frammenta cambiando prospettiva, è un sentimento che muta di intensità a seconda del clima. Insomma, un triangolo di terra appoggiato sul Mare Ligure, sospeso tra la costa e i monti».
Palingenesi raggiunta?
«A casa, dalla costa soffia una libecciata violenta e l’aria, anche qui nell’ entroterra, è salmastra. Meraviglie del Finalese, stare in campagna sentendo il profumo del mare, passare dalla sabbia ai boschi bui di lecci in un attimo. Sì, è un posto meraviglioso, il più bel nido che io abbia mai avuto…».