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Come sono fatti i missili di Teheran e perché l’attacco è stato un fallimento

Martedì sera l'Iran ha scatenato contro Israele una forza di circa 180 missili balistici la cui maggioranza sarebbe stata intercettata dalle difese aeree impiegate da Israele ma anche da Stati Uniti e Giordania, senza i quali la strategia iraniana avrebbe avuto maggiore successo. L’intenzione, oltre a vendicare l’attacco al capo di Hezbollah, era quella di puntare alla saturazione dei sistemi Arrow 2 e Arrow 3 di Israele (che arrivano a circa 70 km di altezza, ma possono colpire gli intrusi anche prima che rientrino in atmosfera), sviluppati congiuntamente con gli Stati Uniti, quindi dello David Sling (a corto e medio raggio, fino a 300 km) e infine quella dello Iron Dome (la difesa più prossima al suolo), sparando una quantità elevata di missili in modo che qualcuno di essi potesse arrivare a segno. L’apporto degli Usa è arrivato dai cacciatorpediniere lanciamissili Uss Cole e Uss Bulkeley della Marina che operano nel Mar Mediterraneo orientale e sono equipaggiati con il sistema di difesa missilistica balistica Aegis, intercettori in grado di colpire e distruggere i missili balistici in arrivo nelle loro fasi intermedie o terminali. L'aeronautica militare della Giordania ha invece intercettato missili iraniani mentre erano in quota. Il risultato è stato quanto si è visto dalle immagini televisive: gli impatti diretti sono stati pochi, mentre la quasi totalità delle parti cadute al suolo apparteneva a ciò che dei missili rimaneva dopo l’intercettazione da parte degli effettori israeliani. La forza di Teheran è proprio questa: ha migliaia di missili balistici e da crociera di varie gittate e i veri numeri sono sconosciuti, seppure gli Stati Uniti dichiarino di aver tracciato un volume di 3.000 unità pronte al lancio, tutte con tecnologia appunto balistica. Significa che dopo il lancio essi devono assumere traiettorie che li trasportano di poco al di fuori o vicino ai limiti dell'atmosfera terrestre, prima che il carico della testata di guerra – la parte che esplode - si separi dal razzo vettore che lo ha trasportato in alto e ricada nell'atmosfera verso il suo bersaglio. Il tipo usato la sera di martedì si chiama Shahab-3 (secondo la configurazione lungo fino 16 metri e largo 1,3), è entrato in servizio oltre vent’anni fa e per decollare utilizza propellente liquido, cioè propellenti che devono essere caricati a bordo poco prima del lancio utilizzando impianti e autobotti dedicate, ed è proprio uno dei segnali di imminente attacco che i satelliti – oppure le spie - possono scoprire. Allertando Israele di conseguenza. Il secondo stadio edi missili, quando presente, è invece a propellente solido, che ha il vantaggio di essere caricato all’origine ma presenta lo svantaggio di dover essere prodotto in stabilimenti particolari, le cui forniture e tecnologie sono quindi oggetto di interesse da parte dell’intelligence. Si può quindi dire che lo Shahab-3 sia il progetto base al quale fanno riferimento tutti i missili balistici a medio raggio dell'Iran. Di conseguenza, per tutti i servizi informazioni dell’occidente non è complicato prevedere i lanci, ma è estremamente impegnativo perché, giocoforza, la ricerca implica un’analisi continua dei siti di lancio e del movimento dei lanciatori su ruote, dei rifornimenti e delle operazioni pre-lancio. Quanto all’armamento, questi ordigni possono trasportare una singola testata di peso variabile da 760 a 1.200 chilogrammi approntata sia su lanciatori mobili, sia da silos interrati, tutti comunque tra i bersagli di una possibile azione israeliana.

Il sistema di guida dei Shahab-3 per la fase finale del volo è affidato a vari sistemi secondo la versione (Emad, Ghadr e altre varianti ancora), ma normalmente a un sistema relativamente economico come quello inerziale (una serie di giroscopi) o radar-terminale, ovvero che attiva la spoletta in prossimità del primo ostacolo solido rilevato. Ne consegue che la precisione massima è di circa 300 metri rispetto al bersaglio programmato. Secondo i media di Teheran le forze della Repubblica islamica avrebbero usato anche alcuni esemplari del nuovo Fattah-1, ovvero un missile definibile come ipersonico perché viaggia a una velocità di cinque volte quella velocità del suono, circa 6.000 km/h, ma in realtà queste velocità vengono raggiunte da quasi tutti i missili balistici, mentre il termine si riferisce in modo tecnico a quelli che, volando a tali velocità, riescono in realtà anche a manovrare nell’atmosfera e per questo motivo sono difficili da neutralizzare prima che arrivino sul bersaglio. Dunque, nel dire di avere armi ipersoniche, l’Iran preoccupa relativamente. Stando ad alcuni analisti militari, i Fattah-1 sarebbero in grado soltanto di modificare relativamente la loro traiettoria nella parte finale del volo e non sarebbe neppure nella configurazione finale, ma ancora in fase di sviluppo. Il fatto che nessun missile abbia causato i danni voluti a Israele significa essenzialmente che questi sarebbero stati pochi oppure non ancora funzionanti come gli iraniani vorrebbero. Ma significa anche che i militari islamici hanno molto da perdere se usano tutti quelli che hanno in questo stato di apparente “pre operatività”, dando a Israele molte informazioni utili su come e dove sono realizzati. Nell’attacco del primo ottobre è quindi evidente che le forze di Difesa israeliane sono state aiutate da quelle statunitensi per il tracciamento dei missili subito dopo il lancio e l’impostazione della traiettoria balistica, nonché da quelle giordane poiché, inevitabilmente, gli Shahab-3 hanno dovuto sorvolare ad altissima quota il territorio di Amman.

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