Calusiese 82enne morì di Covid in una Rsa, maxi risarcimento a moglie e figlio
Caluso
Una sentenza destinata con ogni probabilità a fare giurisprudenza quella pronunciata il 27 settembre dalla seconda sezione civile del tribunale di Padova perché è la prima che accoglie la richiesta di risarcimento avanzata dai familiari di un uomo di 82 anni, di Caluso, morto a causa del Covid nell’autunno del 2020 (seconda ondata pandemica) all’interno di una casa di riposo dell’Alto Canavese (gestita da una società di Padova). La struttura è stata condannata dal giudice Roberto Beghini a risarcire la moglie e il figlio del defunto, assistiti dall’avvocato del foro di Ivrea Giacomo Vassia, per una somma superiore al mezzo milione di euro per non aver impedito l’ingresso del virus all’interno della struttura sanitaria. Nella sentenza il giudice ha disposto che fossero omesse le generalità e i dati identificativi, anche indiretti, di tutte le persone fisiche e giuridiche coinvolte nella vicenda.
Dopo tre anni di istruttoria con numerose testimonianze e consulenze mediche, il tribunale di Padova ha quindi stabilito la diretta riconducibilità causale dell’infezione Covid-19 alle prestazioni rese nella casa di risposo, condannano la struttura all’ingente risarcimento per danno parentale.
È il 26 novembre dl 2020 quando l’82enne di Caluso muore intorno alle 3.30 a causa del Covid-19 contratto all’interno della Rsa dopo essere risultato positivo già il 20 novembre al tampone molecolare. Il virus in quella struttura circolava già dal 15 novembre. Tra il 23 e il 29 novembre a fronte di 67 test rapidi e due positivi, 13 dipendenti venivano ricontrollati con il molecolare e 12 risultavano positivi.
Passando alla cause del decesso è stato accertato che con ogni probabilità l’uomo, con un quadro clinico complicato aggravato da un decadimento cognitivo, è morto a causa di insufficienza cardio-respiratoria conseguente alla malattia da Covid, seppur gli elementi clinici a disposizione, stanti le gravi carenze assistenziali, sono molto scarsi. Quello che è certo è che il 17 novembre del 2020 il paziente era stato già contagiato e risultava positivo a tampone molecolare (risultato arrivato il 20). Altra certezza: il 25 novembre, dopo almeno 8 giorni di infezione, l’uomo presentava febbre, respiro affannoso e saturazione del 90% e successivamente dell’88%. Inoltre, nei giorni precedenti il 17 novembre la sua cartella clinica non lasciava comunque intravedere criticità.
La documentazione evidenzia che il paziente, dopo il tampone molecolare, non fu esaminato dal personale infermieristico per più di 58 ore e nemmeno dopo questo tempo venne effettuato un controllo medico. Nella sentenza il giudice parla di un paziente fragile, Covid positivo, non capace di riferire alcunché del suo stato di salute, i cui sintomi non sono stati indagati da personale adatti a coglierli. Il tribunale parla infatti di un operatore non qualificato. Addirittura non c’è traccia prima del 25 novembre né di visita medica ed approfondimenti diagnostici con eventuale presa in carico ospedaliera. Dallo studio del caso è emerso, si legge ancora nella sentenza, un atteggiamento di assistenza e cura da parte del personale sanitario della struttura caratterizzato da marcata negligenza, che ha contribuito a ridurre le chance di sopravvivenza del 25%.