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Emergenza e pronto soccorso, il medico Daniele Coen: “Dobbiamo prepararci alle conseguenze del cambiamento climatico”

“I disastri accadono, perché non tutti possono essere prevenuti, specie in epoca di guerre, terrorismo e cambiamenti climatici. Da questo punto di vista il Pronto Soccorso è un importante punto di osservazione. Si tratta di un microcosmo che vive problemi organizzativi simili a quelli delle altre istituzioni che hanno la responsabilità di prevenire disastri e di rispondervi quando succedono e una programmazione adeguata della risposta agli eventi catastrofici può ridurre di molto il numero delle vittime”. Daniele Coen, medico d’urgenza, è stato per 15 anni direttore del Pronto Soccorso dell’Ospedale Niguarda di Milano. Su questa esperienza ha scritto un libro, Corsia di emergenza. La mia vita di medico in Pronto Soccorso (Chiare Lettere), dove racconta sia la complessità degli interventi su urgenze ed emergenze quotidiane, sia come queste realtà di prima accoglienza siano diventate lo specchio della società e di tutte le sue contraddizioni.

Partiamo dalle catastrofi. Come si attrezzano i Pronto Soccorsi e qual è la sua esperienza in merito?

Prepararsi ad affrontare un disastro è un impegno complesso e costoso. Pensiamo a come l’Italia si è trovata a far fronte alla prima ondata di epidemie senza alcuna preparazione, con ospedali, medici di famiglia e cittadini abbandonati a se stessi. Ma penso anche ad altri esempi.

Quali?

La miope cementificazione degli alvei di fiumi e torrenti, l’insufficiente attenzione alla costruzione di edifici antisismici, l’estrema fatica della politica a finanziare e mettere in atto gli interventi necessari per combattere il cambiamento climatico che nei prossimi decenni causerà fenomeni atmosferici e sanitari sempre più frequenti e distruttivi.

Lei scrive che dopo l’11 settembre 2001 i Pronto Soccorso in qualche modo furono spinti a organizzarsi.

Il lavoro da fare era enorme. Bisognava immaginare scenari molto diversi tra loro: emergenze traumatiche, chimico-biologiche, nucleari. Si doveva inoltre considerare l’ipotesi che l’evento catastrofico potesse avvenire di notte, o che l’ospedale stesso venisse colpito e non fosse più in grado di garantire il consueto standard di assistenza. Le comunicazioni telefoniche potevano andare in tilt, l’elettricità poteva saltare, le scorte di materiale rivelarsi insufficienti. Ma il problema principale era un altro.

Cosa faceste?

Nel giro di una settimana elaborammo una prima bozza di quello che prese il nome di PEMAF (Piano di emergenza per il massiccio afflusso di feriti), ma ci vollero mesi prima che quanto scritto sulla carta potesse essere messo in pratica. Era fondamentale che almeno un migliaio di persone (il Niguarda ha circa quattromila dipendenti) tra medici, infermieri, tecnici e personale amministrativo conoscesse il piano e fosse in grado di metterlo in atto al momento del bisogno. Questo avrebbe richiesto interventi capillari di in-formazione e ripetute esercitazioni.

Però riusciste ad attrezzarvi.

Sì, infatti durante i due eventi di preallerta in cui il nostro ospedale è stato coinvolto in seguito (il disastro aereo di Linate nell’ottobre del 2001 e lo schianto di un aereo da turismo contro il grattacielo del Pirellone, sede di Regione Lombardia, nell’aprile 2002), dopo meno di un’ora il Pronto Soccorso era vuoto e pronto ad accogliere il possibile afflusso di feriti.

Un altro aspetto cruciale durante le emergenze è la questione della comunicazione.

È vero. Tra i tanti altri aspetti che devono essere presi in considerazione nel corso di una maxi-emergenza ci sono, come già detto, le comunicazioni (possibilmente via radio per il rischio di black-out dei cellulari, ma avevamo previsto anche che un medico in bicicletta potesse portare fisicamente le informazioni dal Pronto Soccorso all’Unità di Crisi e viceversa); la gestione delle camere e delle équipe operatorie; la verifica e il rifornimento del materiale presente a magazzino (tra cui anche decine di barelle dedicate); il veloce recupero di apparecchiature complesse come i ventilatori; l’informazione e il supporto psicologico da rivolgere ai familiari delle vittime; i rapporti con la stampa, e via dicendo. Ma il punto fondamentale, ripeto, sono le esercitazioni.

Non basta la teoria.

No. Le esercitazioni consentono invece di prendere confidenza con gli spazi e con i tempi necessari per eseguire ogni singolo compito. Non trovare le chiavi del magazzino, non sapere come si ricarica una radio portatile, non essere in grado di cambiare la pellicola di una Polaroid, non avere i corretti adattatori per le prese elettriche di tutte le apparecchiature aggiuntive, non avere una lista aggiornata dei numeri telefonici sono alcuni esempi di come una serie di piccole cose possano mettersi di traverso.

Un altro momento di emergenza fu durante la pandemia di Ebola in Africa nel 2014.

Tutti gli ospedali italiani furono obbligati a organizzare percorsi e predisporre strutture adatte a isolare i casi sospetti durante la fase diagnostica. Al Niguarda ciò comportò l’allestimento di una stanza di isolamento avanzato (con pressione negativa, comunicazione via microfono con l’esterno e doccia interna dedicata), oltre a numerose (ed estenuanti) esercitazioni di vestizione e svestizione degli operatori.

L’altra emergenza che arriva nei pronto soccorso sono le migrazioni.

Oggi è straniero il 10-15% per cento dei pazienti che si recano in Pronto Soccorso: una percentuale più alta di quella degli stranieri nella popolazione globale, che si aggira intorno all’8%. Ciò riflette, una volta di più, quello che succede fuori dalle mura degli ospedali. In questi ultimi anni, in Italia sono arrivati soprattutto migranti provenienti dai Paesi più colpiti da siccità, alluvioni e, più in generale, dal cambiamento climatico, dipendenti dal grano russo e ucraino e aree del mondo allo stremo per le conseguenze dell’innalzamento delle temperature medie e per le carestie.

Qualche politico chiese di denunciare i clandestini arrivati in Pronto Soccorso.

L’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari ha messo fuori regola decine di migliaia di individui che da tempo vivevano e lavoravano nel nostro Paese. A queste persone resta un’unica possibilità di accesso alle cure mediche: una dichiarazione autografa di indigenza, attraverso la quale è possibile ottenere un codice STP (Straniero Temporaneamente Presente) che garantisce assistenza gratuita per le cure urgenti o essenziali e per la salute materno-infantile. Purtroppo solo in pochissime regioni sono stati attivati ambulatori dedicati agli STP, e di conseguenza gli unici servizi in grado di fornire assistenza e cure sono i consultori famigliari e i Pronto Soccorso. Ma per fortuna, nessun medico ha mai denunciato i clandestini. Per noi sono solamente persone bisognose di cure come tutti gli altri.

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