Venezia Calcio, quarant’anni di storie e passioni
La promozione in Serie A targata Novellino, nel giugno 1998, è il momento più esaltante. Il Venezia Calcio dell’era moderna, quello generato nel 1987 dalla tanto discussa unione tra il Venezia neroverde e il Mestre arancionero, ha fornito gli ingredienti,
mentre il nostro giornale da attento e diligente chef, ha composto il racconto-pietanza da servire ai lettori. Quarant’anni di storia. Di sport, ma anche di un mondo completamente cambiato in una città che da una parte si batte per difendere storia e tradizioni ma dall’altra si arrende, quasi consenziente, alle nuove regole di un mercato che hanno invaso anche il campo sportivo.
Lo sport, bisogna dirlo, non è al primo posto nella scala degli interessi e delle battaglie della città. Ma resiste. Resiste perché non ha perso, nonostante tutto, la passione dei tifosi. Ed è forse proprio la passione a rendere Venezia competitiva di fronte ad altre realtà oggettivamente avvantaggiate per struttura societaria, bacino d’utenza, infrastrutture.
Lo zoccolo duro della Reyer, nonostante qualche brontolio, non è mai venuto meno, e poi con tutto il rispetto per le altre discipline, è sempre il calcio a fare la parte del leone.
Nell’epoca degli algoritmi Il ritorno in serie A dopo oltre trent’anni, rappresenta il momento più bello, quello più voluto e più sofferto, se si pensa che fino a quel momento le ultime tracce di un Venezia in Serie A si ritrovano nella memoria dei tifosi con capelli bianchi e nelle pagine degli album Panini con Ferruccio Mazzola, Benitez, Bubacco e gli altri ragazzi, alcuni dei quali nel frattempo ci hanno lasciato.
Nell’epoca degli algoritmi
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Poi altre promozioni, addirittura resurrezioni, trionfi e scudetti nel basket, risultati brillanti a livello di squadra e individuali - su tutti il prestigio della scuola veneziana di scherma - ma quei giorni del giugno ‘98 restano scolpiti nei masegni.
Hanno creato da una parte la formazione di una nuova generazione di tifosi, quei giovani che frequentavano il “Penzo” convinti dai ricordi dei padri e adesso tornano nella loro curva con i figli, ma dall’altra anche un nuovo modo di intendere il calcio da parte di chi lo organizza, lo gestisce, lo propone a chi – che tristezza doverlo ammettere – è sempre più trattato da cliente.
E via così. Il calcio è cambiato, qui come altrove. E mentre i giocatori arrivano su suggerimento degli algoritmi, registriamo sempre meno poesia, sempre meno fascino. L’idea del viaggio in battello diretti allo stadio o dell’assenza delle auto tutt’intorno offrono ancora momenti di batticuore e letteratura, ma purtroppo perdono la sfida contro il nuovo linguaggio dello sport più amato.
Marketing e merchandising, tanto per dirne due e per capirsi, ora riempiono i nostri discorsi e anche le nostre pagine, saranno anche fondamentali per la sopravvivenza dei clubs, ma non ci trasmettono overdosi di entusiasmo. Ognuno può pensarla come vuole, ci mancherebbe. Ma è indubitabile che anche i rapporti tra i giocatori e i tifosi e la città siano oggi meno intensi. La comunicazione filtrata è una catena, una barriera.
Chiusi nel confronto
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Potevi incontrare il tuo campione a San Marco come in piazza Ferretto, chiacchierare sull’ultima partita e magari salutarsi davanti a uno spritz, mentre adesso per chiedere a Pohjanpalo che ora è (anzi, what time is it?) devi passare attraverso l’ufficio stampa.
Ufficio stampa che fa il suo lavoro, sia chiaro, e che non è colpevole, ma deve limitare, gestire, in certi casi anche centellinare, il rapporto di comunicazione con l’esterno, un rapporto che i clubs a fronte di lauti compensi, hanno ceduto alle televisioni.
E questo è solo un esempio di quanto è successo in questi ultimi anni, a scapito dei tifosi che pagano il biglietto e, permettete, anche a scapito dei giornali, che sono là per raccontare la squadra ai tifosi stessi. Un problema non solo nostro, non solo di Venezia e del Venezia, ma di tante altre realtà. Un cambiamento evidente, poi ognuno rifletta e decida se sia in meglio o in peggio.
Delle famose “terze maglie” meglio neanche parlarne, spacciate come omaggi alla città, celebrazioni di anniversari o altri eventi, sono in realtà tentativi di vendere prodotti che nulla hanno a che fare con la nostra storia, ma sono ami mascherati dall’esca che aspetta di vedere abboccare l’ingenuo collezionista. Mah.
E le interviste? Il momento che più avvicina la squadra al tifoso, reso tanto più interessante quanto è capace di essere libero, pungente e a volte ironico il giornalista, ha subìto un’entrata a gamba tesa.
Detto del filtro della comunicazione societaria, e detto della frequente soggezione dell’atleta che prima di rispondere deve guardare l’addetto stampa e vederlo annuire, ora ci ritroviamo anche con la barriera della lingua, un ostacolo evidente nel momento in cui i protagonisti dei prepartita e dei dopopartita (scelti dai clubs) sono finlandesi, svedesi, islandesi, americani e di ogni dove.
Sarà un peccato di provincialismo, ma volete mettere quelle sane chiacchierate iniziate in sala stampa con Paolo Poggi e magari finite ai Giardini, nelle quali rimbalzava anche qualche parola in dialetto? Fate voi.
Proprietà straniere
L’ingessatura della comunicazione adesso ci porta a sentire quelle pietre miliari di ovvietà dei giocatori che ti spiegano come “dobbiamo già pensare alla prossima partita” oppure “dobbiamo farci trovare pronti”, oppure ancora “l’importante è non mollare”.
Oppure, repertorio degli allenatori, “abbiamo giocato di squadra”, o anche “mi ha convinto il progetto”, per non dire del celebre “sono contento della prestazione” detto dopo una sconfitta, una dichiarazione che non ha mai impietosito i presidenti, tanto meno, visto che ci stiamo raccontando questi quarant’anni, uno come Zamparini, che a torto o a ragione cambiava gli allenatori con la frequenza delle camicie.
L’onestà impone anche un po’ di autocritica, e allora qualche volta anche chi fa le domande ha voluto partecipare alla fiera delle ovvietà e dal vivo o in televisione sentire delle aperture di servizio con affondi del tipo “quanto è importante questa vittoria” oppure, in caso di pareggio, “mister, bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto?” sono brividi pari alle unghie che graffiano la lavagna.
Abbiamo vissuto anche le trasformazioni strutturali di un Venezia passato da gestioni casarecce a gestioni straniere: Mazzucato vendeva i lampadari a Murano, Zamparini è arrivato con i suoi Mercatoni che ha ceduto ai francesi quando ha deciso di cambiare aria, gli ultimi vent’anni poi hanno visto in sede i russi e gli americani, come canta Lucio Dalla.
Del resto anche i grandi club metropolitani hanno padroni stranieri, multinazionali varie, cinesi, americani in maggioranza, per non parlare dei fondi. Ci siamo adeguati.
Passione Penzo
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La rivoluzione vissuta da questi due quasi-coetanei - il Venezia calcio dell’era moderna con i suoi 37 e il nostro giornale fresco quarantenne - ha fatto i conti anche con il non trascurabile fenomeno social, e se la possibilità di esprimere la propria idea, la propria opinione, rappresenta una delle grandi conquiste della società moderna, è anche vero che non sempre ogni intervento ha dato contributi all’informazione e alla comunicazione.
Il tutto ovviamente senza nemmeno prendere in considerazione chi ha scelto il computer come strumento per insultare. E se non sempre i soggetti si sono scambiati mazzi di fiori, è anche vero che in Laguna si registra una maggior moderazione dei toni, pur spesso critici, rispetto ad altre celebrate e frequentate piazze.
Al passo con i tempi, anche la Nuova ha offerto i suoi spazi, sempre pronta al dialogo nelle forme social del nostro tempo.
Fa strano pensare che notizie, commenti, pagelle eccetera oggi possono arrivare a disposizione anche in tempo reale, mentre le imprese di Schwoch e Maniero, Pippo Filippini o Pedro Mariani, dunque non dell’era preistorica, arrivavano sulla carta al lunedì spinte e trasmesse dai vecchi Toshiba che con il loro sordo sibilo passavano via linea telefonica attraverso l’elaboratore centrale.
Altri tempi, che ci fanno capire come il girotondo sport-calcio-Venezia-tifosi-giornale sia volato via come tanti altri fatti della nostra vita. Ma se siamo qui a raccontarcela è già un bene.
Perché questo quarantennio che tante cose ha cambiato e tante altre ha spazzato via, non è riuscito a piegare la vera forza degli sportivi veneziani e mestrini: la passione.
Quella di chi va a Sant’Elena ogni domenica (anzi, nel giorno che capita, visto che le tivù impongono lo “spezzatino”), quella di chi fa l’abbonamento e non sta a discutere se arrivare al “Penzo” è scomodo o se nelle notturne d’inverno tira un’aria da esquimesi, quelli che seguono la squadra in casa e fuori in giro per l’Italia.
E questo vale anche per i cuori reierini fedeli dai tempi della Misericordia o dell’Arsenale a oggi. La passione, ecco, da queste parti forse più che altrove, fa rima con certezza.
Tutto il resto scorre, è passato, è cambiato. Lasciando sulla scia anche una speranza, o forse un’illusione, quella di fare in tempo a metter piede allo stadio nuovo.
Essere ottimisti spesso è una qualità, ma dirlo a chi fin dagli anni Sessanta sentiva parlare di stadio nuovo in terraferma (San Giuliano, sindaco Favaretto Fisca se la memoria è ancora buona) è una impresa difficile.
Promesse, progetti, proverbiale il famoso plastico della Fiat Engineering che fece stappare tante bottiglie di prosecco, insomma, parole rimaste parole. Ora il Bosco dello Sport, e vabbè, ma lasciamo una chance anche ai seguaci di San Tommaso, sono in tanti quelli che aspettano l’opera compiuta e collaudata e poi palla al centro e fischio di inizio. Ci dicono che lo stadio nuovo ormai è all’orizzonte, okay, camminiamo verso lo stadio. Il problema è che l’orizzonte si vede, ma non ci si arriva mai.