Caso preghiere a Monfalcone, un anno fa il primo atto del braccio di ferro tra Comune e centri islamici
Nessuno si aspettava quell’agenzia di stampa. Ma all’inizio è stato “solo” questo: il lancio giornalistico che deflagra a metà pomeriggio. Poche, stringate parole che preannunciano il servizio in esclusiva del talk politico “Fuori dal coro”, protagonista Anna Cisint, all’epoca ancora sindaca. Un paio d’ore dopo, alle 18.31, corrobora la notizia una nota istituzionale diffusa da una delle addette stampa municipali, che circoscrive: il Comune di Monfalcone ha assunto «due provvedimenti amministrativi, notificati oggi alle strutture interessate, che inibiscono, con effetto immediato, l’utilizzo dei due centri islamici cittadini come luoghi di culto».
[[ge:gnn:ilpiccolo:13864139]]
Un anno fa
È il 15 novembre 2023, un mercoledì, e il contenzioso tuttora pendente col Darus Salaam di via Duca d’Aosta e il Baitus Salat di via Don Fanin, esteso anche al piazzale dell’ex Hardi di via Primo maggio, sempre proprietà di quest’ultimo sodalizio, nasce così. Esattamente un anno fa.
Una vicenda che buca la bolla della vita cittadina, apre un giudizio che sale fino all’attenzione del Consiglio di Stato, scomoda gli amministrativisti, crea emulazione in altre realtà, si pone al centro di una campagna elettorale europea (sfondandola), scatena lettere minatorie e con pagine di Corano cosparse di escrementi, monopolizza la pressoché totalità dei dibattiti politici.
[[ge:gnn:ilpiccolo:13898567]]
La protesta dei musulmani
Soprattutto: vede sotto l’indaco cielo di Monfalcone attraversare il centro, l’antivigilia di Natale, da ottomila musulmani (e non) con sventolanti bandierine tricolori per ribadire la libertà di culto. E un braccio di ferro senza eguali alle successive celebrazioni del Ramadan, la Pasqua dei musulmani, che alla fine filano lisce come il corteo sorvegliato dalle forze dell’ordine il 23 dicembre, pure in assetto antisommossa.
[[ge:gnn:ilpiccolo:13953535]]
Il ruolo delle forze dell’ordine
Sì, perché se Comune e referenti delle comunità islamiche, su tutti Bou Konate, presidente onorario del Darus, sono stati in questi 12 mesi i protagonisti indiscussi del caso davanti ai riflettori, sotto traccia, invece, hanno costantemente operato, mediato, vigilato le forze di polizia, figure per dovere più defilate, ma nient’affatto secondarie sullo scacchiere di questa vicenda.
Lo spiega limpidamente il questore di Gorizia Luigi Di Ruscio: «Il nostro compito è stato soprattutto quello di far rispettare la legge, trovando un punto di equilibrio tra diritti costituzionalmente garantiti, come quello a legiferare e quello a manifestare».
[[ge:gnn:ilpiccolo:13915060]]
«È stato impegnativo – ammette – trovare di volta in volta il giusto compromesso tra interessi apparentemente contrapposti. Direi che la difficoltà maggiore, nei 12 mesi, è stata proprio questa: arrivare al punto di equilibrio, tutelando l’ordine e la sicurezza pubblica. Mi pare che lo scopo sia stato raggiunto: nessuno si è fatto male. E penso che ciò si sia raggiunto con la collaborazione di tutti». «L’invito che diedi a inizio anno – rammenta Di Ruscio – ad abbassare i toni è stato rispettato da tutte le parti».
Legge rispettata
Ma se il compito è stato quello di far rispettare la legge, la legge è stata effettivamente rispettata? «Posso affermare che la comunità – replica il questore – ha sempre osservato le prescrizioni poste. Su questo argomento non posso dire nulla di diverso». Eppure anche negli ultimi tempi si è sentito a lungo parlare di radicalismi, gettando ombre inquietanti su una comunità che comunque, dalla consultazione dei siti istituzionali, fonte Ministero dell’Interno, non ha visto negli ultimi anni espellere alcun suo cittadino per pericolosità sociale, terrorismo o cause affini. Tant’è che le minacce per le quali, sempre nel 2023 e a causa di questo contenzioso in atto, Cisint è finita sotto scorta sono giunte perlopiù da fuori, da altri paesi.
I prossimi passi
Precisamente un anno fa, dunque, il prologo di questa lunga storia. Non si può dire, ancora, se e come finirà, ma l’ultima parola, all’alba del 2025, potrebbe proferirla appunto il massimo organo della giustizia amministrativa, Palazzo Spada.
Che nel suo pronunciamento della scorsa settimana, in accoglimento dell’istanza di sospensiva sollevata dall’ente attraverso l’avvocata di fiducia Teresa Billiani (per congelare gli effetti della sentenza avversa di primo grado, con cui il Tar aveva annullato il 27 giugno le ordinanze varate dal dirigente Marco Marmotti e impugnate dai centri con il legale Vincenzo Latorraca), ha stabilito una sollecita definizione del giudizio nel merito, fissando già all’11 febbraio la sua trattazione in udienza e con spesa da definirsi al grado definitivo di giudizio.
Tradotto: il Consiglio di Stato ha ritenuto siano apprezzabili e tutelabili – appunto con una seduta in tempi brevi rispetto alla prassi, che può vedere un ricorso pendente anche per anni – le questioni sollevate dal Comune come appellante, indicando la data in questione. Una data che precede il Ramadan, sicché alle prossime celebrazioni, in un verso o nell’altro, sarà messo un punto sulla questione.
Doppio binario
Fin dal suo incipit, comunque, il caso ha seguito due differenti binari: quello politico, più pirotecnico (per usare un eufemismo), e quello amministrativo, in punta di diritto. Accompagnati, di pari passo, da corrispondenti e difformi linguaggi. Fin dalle prime battute, come si diceva. Nella fatidica agenzia di stampa, digitata il 15 novembre 2023, il tono era infatti di “pancia”, meno istituzionale: «L’integrazione non è un obiettivo che hanno i musulmani integralisti. Come a me è stato detto da alcuni imam: “Noi non siamo interessati all’integrazione, ma alla sostituzione”. Il modello che applicano è quello del loro Paese, non della nostra civiltà occidentale».
L’azione amministrativa
Più tecnico invece il comunicato sull’azione amministrativa, che si soffermava sulle due ordinanze dirigenziali «a tutela della pubblica incolumità», scaturite da quattro mesi di controlli, per spiegare il riscontro di usi difformi da quelli previsti dalla destinazione d’uso dei locali, sancita dal vigente Piano regolatore. Di qui il comando a ripristinarne l’impiego corretto.
I centri non ne sapevano nulla e continuarono, per poco, a comportarsi usualmente, finché non comparvero i primi cartelli per spiegare che non si sarebbe più potuto pregare in massa e che ognuno avrebbe dovuto salmodiare negli ambienti privati: salāt in solitaria. Fino alla sentenza del Tar, che da giugno ha ribaltato tutto, ripristinando le consuetudini. Riportando le lancette al 14 novembre 2023, quando Monfalcone ignorava si sarebbe scatenata la battaglia campale delle ordinanze. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA