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“PICCOLezze”, ecco il libro del giornalista Maurizio Cattaruzza che svela la strampalata vita di redazione

Un giornale è lo strumento più democratico e allo stesso tempo più anti democratico che possa esistere. Sembra un ossimoro ma non lo è. Sono le differenze al suo interno a creare questa dimensione unica. Un giorno può piacere, quello dopo no. Perché un quotidiano, specie quello di un preciso e strambo territorio qual è Trieste, dopo tutto somiglia alla squadra del cuore della tua città; per la quale provi amore, odio ma alla fine non la abbandonerai mai.

Il Piccolo con il suo quasi secolo e mezzo alle spalle è la rappresentazione più fedele di questa dimensione. Il motivo sta nella triestinità, che contagia anche chi arriva da fuori, e ovviamente nelle persone. Di questo parla Maurizio Cattaruzza, mettendole al centro: le persone. “PICCOLezze”, il titolo del suo libro edito da Mgs Press (pag. 120, 13 euro), raccoglie storie fatte di uomini, donne, luoghi che raccontano, come da sottotitolo, “follie e nevrosi di una redazione”.

Ci voleva un giornalista pensionato benestante, sì proprio come il sior Busani della canzone “Finanziere”, per svelare a volte anche in modo molesto un intero ambiente con l’arma dell’ironia e dell’autoironia, una rarità di questo mondo, così da riportare alla normalità una categoria che si prende troppo sul serio.

Il supporto non poteva che arrivare da due giornalisti del quotidiano Il Piccolo come Carlo Giovanella, ora nei panni di editore, e Roberto Curci capace di descrivere nella memorabile prefazione “I nostri anni di piombo” quella «fauna umana» prima dell’avvento «drammatico» del computer.

Via Pellico chiama Campo Marzio e infine via Mazzini, la sede attuale del giornale. È la storia del quotidiano di Trieste, di Gorizia e di Monfalcone fatta letteralmente di «piombo fuso» che, assieme all’inseparabile macchina per scrivere, riusciva a mandare ogni notte il giornale in stampa e nelle edicole. Il tutto grazie a una «Corte dei miracoli» fatta di giornalisti, impiegati, tipografi, dimafonisti, correttori di bozze, archivisti, rotativisti... pronti a litigare ferocemente e poi il primo maggio, uno dei pochi giorni in cui non si lavora, scegliere comunque di stare assieme con le rispettive famiglie sul campetto di Grado per una partita di calcio fra giornalisti e tipografi. «Una strampalata bella famiglia» la definisce Curci. Quella famiglia non è mai stata raccontata forse per pudore, poi arriva lo spudorato Cattaruzza... E allora ecco le storie di chi avrebbe fatto strada, partendo da Trieste, come «il raccomandato ma di talento» Alberto Castagna inviato a raccontare il dramma del terremoto del Friuli del 1976, poi mandato alla redazione romana del giornale e, infine, diventato un divo della televisione con il programma Stranamore.

Il libro di Cattaruzza, quarant’anni passati all’interno fra correttore di bozze e caporedattore, non è la storia de Il Piccolo e tantomeno vuole esserlo. L’intento è dare una dimensione umana, comprese le sue debolezze, a questo ambiente conosciuto solo per antonomasia ma in realtà sconosciuto all’esterno.

Bastano due aneddoti, inutile e anche sbagliato svelare quelli di “Piccolezze”, per far capire quel rapporto “paritario” in una struttura piramidale come deve essere un giornale. Una mattina, erano i primissimi anni Novanta, entra nella sede di via Reni un signore presentandosi con nome e cognome: «Buongiorno, sono il direttore del Piccolo».

La risposta del fattorino in portineria, che non gli apre: «Sì e mi son Napoleone». Era davvero il nuovo direttore... Invece una sera del 2005, dopo l’introduzione della legge Sirchia sul divieto di fumo anche nei posti di lavoro, l’open space è avvolto da un forte odore di sigaretta. Tutto porta al quadrilatero della redazione sportiva. «Chi sta fumando?» grida un giornalista precipitandosi nel posto in cui sale la nuvoletta di fumo. Trova il collega incriminato che, impassibile, ha appenato dato l’ultima tirata alla sua Marlboro. In un impeto d’ira il giornalista salutista rovescia dall’armadietto un piccolo televisore che esplode sul pavimento. L’altro nemmeno si volta, lasciando spiaccicata a terra la tv tutta la notte, assieme al cimitero di “cicche” spente con i mocassini sotto il tavolo. Dalla stanza di fronte esce il condirettore, osserva e rientra a lavorare senza dire nulla. Alla fine del mese, giorno dello stipendio, chi aveva rovesciato il televisore trova nella busta paga una voce con il segno meno da 250 euro. Il costo del piccolo schermo. L’altro un richiamo a rispettare la legge antifumo.

In tutto questo spaccato emerge il rapporto con la città e quelle copie contese al bar anche da chi Il Piccolo dice di non leggerlo. «I pensionati venivano al mattino a leggerlo a sbafo, sulle bacheche appese al muro di via Pellico; faceva piacere quel rapporto quasi diretto tra produttore e consumatore. Con il tempo il rapporto si è deteriorato ma è anche cambiato a livello globale il modo di fare informazione. Non è tutta colpa nostra» scrive Cattaruzza. No Maurizio, non è tutta colpa nostra e se Il Piccolo esiste dal 1881 è anche grazie a quelle “piccolezze”. —

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