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Salviamo la Cosa pubblica: la psicanalisi in soccorso delle istituzioni smarrite

“Cosa pubblica”, un concetto quanto mai in bilico, non solo da oggi visto le infiltrazioni di logiche privatistiche nel funzionamento delle istituzioni pubbliche, già dagli anni Novanta. L’analista Francesco Stoppa e il filosofo Paolo Gomarasca affrontano la questione esaminandola da più prospettive, storico-politiche, certo, ma anche nell’acuto esame di un’introspezione che mette le istituzioni, ma anche il cittadino di fronte ai propri limiti.

Di “Salviamo la Cosa pubblica. L’anima smarrita delle nostre istituzioni” (VP, pag. 203, euro 18) e di cosa significhi rimettere al centro del dibattito sulle istituzioni la loro natura di Cosa pubblica, ne parla Francesco Stoppa: «Significa – osserva l’analista – mettere in discussione il modello aziendalistico di gestione dei servizi (dalla Sanità alla Scuola) che ha preso avvio, col consenso di tutte le forze politiche, a partire dalla metà degli anni ’90.

Un modello basato su risposte di tipo protocollare ai bisogni educativi o di salute di un certo territorio e che ha come tale prodotto una standardizzazione a tappeto degli interventi. Significa, più in generale, riconsegnare le istituzioni alla loro vocazione di presìdi di civiltà, luoghi che siano anche spazi di parola e di pensiero; tutt’altro quindi che dispenser di prestazioni anonime all’insegna della logica costi/benefici».

Il libro traccia il percorso storico che ha condotto alla perdita di umanizzazione delle istituzioni, dal fascismo all’attuale individualismo. La responsabilità è anche della cultura, più consolatoria che fattiva. Si potrà mai avere, per citare Vittorini, quella “nuova cultura” che sappia proteggere l’uomo?

«Il problema non è solo il mai morto fascismo, quello di ieri, di oggi o di domani (si tratta, si sa, di una tendenza connaturata all’essere umano che non trova di meglio che scaricare le proprie criticità sul capro espiatorio di turno). Il problema è lo stato di sonnambulismo in cui cadono quei movimenti che dovrebbero non solo produrre ma difendere una cultura di accoglienza e non di respingimento della vita, pur nella sua complessità. Oggi più che mai si vede bene come le forze progressiste, rapite nei loro narcisismi, non abbiano saputo costruire le alleanze necessarie per dare corpo a una forma di democrazia realmente alternativa alla vecchia impostazione patriarcale della società. Convertite al culto della tecnocrazia, hanno poi perso ogni interesse per il territorio lasciando il campo al sovranismo».

Si parla dell’importanza delle istituzioni quali memoria di valori trasmessi, ma anche della necessità di uscire – nelle pratiche di civilizzazione degli scenari istituzionali – dalla logica sacrificale...

«Le istituzioni sono luoghi di memoria e di trasmissione: valori, pratiche, saperi che vanno rivitalizzati pena la loro necrosi, cosa che rende impossibile l’ascolto di ciò che si muove nella realtà. La logica sacrificale non contempla invece sviluppi al di là di sé, tende ad esempio a smorzare la creatività delle nuove generazioni. C’è da chiedersi cosa ci si aspetta dai giovani operatori o insegnanti che entrano nelle istituzioni: essere dei funzionari, gli esperti di saperi o pratiche congelati in asettiche linee guida, o dei soggetti capaci, come diceva Basaglia, di “entrare nel rischio”? Il rischio dell’incontro con ciò che di vitale e imprevedibile l’altro ci porta in dote».

Il rilancio civile delle pratiche istituzionali – scrivete – non può che passare attraverso una ritrovata motivazione da parte degli addetti ai lavori. Come?

«Oggi non possiamo più fare ricorso a figure carismatiche o normative illuminate. Bisogna che gli operatori della salute e gli insegnanti riscoprano l’importanza, la dignità e il piacere del loro lavoro. Spesso queste persone non si sentono valorizzate ma umiliate da un sistema preoccupato più di misurarne gli interventi che di sentire le loro ragioni, difficoltà, idee. Non si possono quindi più aspettare soluzioni dall’alto, è invece più che mai necessario adoperarsi per costruire dei collettivi che sappiano interrogare il proprio mestiere interrogando le contingenze del loro tempo. Sono questi piccoli insiemi, motivati e responsabili, capaci di stringere alleanze al proprio interno e fuori dai propri confini, sono loro che, giorno per giorno, possono fare la differenza. Non la rivoluzione, ma la quotidiana custodia e cura dell’umano nelle sue molteplici forme ed espressioni».

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