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All’ombra della Tavole Palatine. Un viaggio nel tempo…

«Di innumerevoli testimonianze in forma di lacerti, di gradinate mordicchiate dal tempo, di sepolture, di canalizzazioni, i rimasugli di un imponente tempio del VI secolo a. C., probabilmente dedicato a Hera e conosciuto come il santuario delle Tavole Palatine, restò a futura memoria, la naturale evocazione paradigmatica dell’intera regione di quella fase storica. Un binario di colonne. In origine trentadue. Odiernamente dieci su di un lato. Cinque sull’altro».

Ecco la descrizione colta e autorevole che Gabriele Scarcia, critico, storico dell’arte, scrittore e giornalista, fece anni addietro delle imponenti colonne superstiti nel libro “Il tesoro della Basilicata” (La Nave di Teseo) con introduzione di Vittorio Sgarbi. Quelle pagine ripercorrevano un luogo simbolo della Magna Grecia, nella terra di Lucania -regione d’origine di Scarcia- all’esito di studi mirati soprattutto sul versante storico e artistico.

Dottor Scarcia, vestigia di un tempo passato…

«Scanalate e con capitelli dorici, come un esercito incompleto schierato su due file parallele; come una processione millenaria pronta a incamminarsi, ma con il vizio della sedentarietà. In una piana, extra moenia, in cui la vista ha la facoltà di spaziare tutt’intorno senza interruzioni. Dove la calda tonalità della pietra, le classiche proporzioni, le ombre millenarie degli eleganti fusti, le ricostruzioni immaginarie di quello che poteva essere costituiscono la presenza edificata più attraente dell’area e dunque il connotato classico più saliente della regione. Una presenza viva, a discapito di una defunta civiltà».

Le Tavole Palatine, in un ideale viaggio, sono un punto di partenza o di arrivo?

«Sono un punto d’orgoglio! O almeno dovrebbero esserlo. Nell’area dove è nato il pensiero, dove si è strutturata la civiltà, le antiche vestigia del tempio ci raccontano pur non parlando. Ci dicono, pur restando mute. E sono un monito per chi, politica compresa, non attribuisce la giusta importanza a un Mezzogiorno lievitato all’ombra di una cultura occidentale che emise i primi vagiti in questo contesto geografico».

Il tempio è parte di un avamposto della Magna Grecia come Metaponto. Che tipo di viaggio si profila verso tale meta?

«È sempre un viaggio emozionale andare incontro alla storia. Lo è ancor di più andare incontro alla storia di una civiltà complessa che ha gettato le fondamenta dell’evoluzione sociale, influenzando prepotentemente il sapere a venire sotto tutti gli aspetti. Metaponto si colloca in un anfratto che fa di Pitagora e della sua Scuola, il lascito più preponderante e connotativo. Niente di assicurato o assicurabile ma una lontanissima memoria orale che vorrà pur dire qualcosa al presente!».

Qui la Storia ha lasciato tracce indelebili…

«Su quelle ciclopiche colonne scanalate, in una imponenza architettonica palese, il “tempio” è in piedi pur se claudicante in una piana dove l’opera dell’uomo si è tradotta in agricoltura, mentre il filosofo matematico ancora aleggia come un’entità astratta ma al contempo viva, per valenza storiografica e per analisi del pensiero. E se il viale principale della Metaponto odierna, oggi ridotta di rango a una semplice frazione, perpetua il nome dello scienziato, gli archeologici gravitano nel suo contesto, magari nella agognata speranza di ricostruirne “la scuola” e di strappare alla terra una sepoltura più prestigiosa di tutte».

E Metaponto oggi? E’ una città antica o moderna?

«C’è il profumo avvolgente, persino nauseabondo in alcuni tratti stradali proveniente dagli oleandri che marcano i viali dell’edilizia del tipico luogo estivo scandito da ville, hotel, ristoranti. Siamo nella Metaponto turistica. Intendiamoci, niente che assomigli ad altre realtà turistiche ben più quotate sul piano nazionale, benché la limpidezza dell’acqua meriterebbe ben altri investimenti».

Non resta, dunque, che indirizzarsi alla Metaponto archeologica...

«Ne recupero il senso e provo orgoglio quando, inaspettatamente, leggo – Metapontum – su una carta geografica, in un fotogramma di un kolossal come “Spartacus” di Stanley Kubrick del 1960, in una scena con Kirk Douglas nei panni del gladiatore della Tracia. La città è, tra l’altro, più volte menzionata nella pellicola! In questo esempio, ma ce ne sono altri, si misura una reputazione che andrebbe difesa e accresciuta».

Come andrebbe guardata la Metaponto archeologica odierna e quali prospettive?

«Premettendo che vi è una sorta di pregiudizio di fondo sull’archeologia laddove le “rovine” o stimolano ad immaginare oppure ci rendono malinconici, la cittadina va guardata con gli occhi di un archeologo. Chi meglio di Dinu Adamesteanu, ieri, e di Joshep Coleman Carter, oggi, possono raccontarcela attraverso l’archeologia? Ho avuto la fortuna di conoscere entrambi. Carter, come l’Howard che scoprì la tomba di Tutankhamon per intenderci, professore all’università del Texas, è un signore distinto, elegante nei modi, sempre pronto a sorriderti».

Studi fondamentali quelli di Adamesteanu…

«Ha approfondito l’esistenza e la funzionalità della chora, ossia del territorio rurale greco. L’altro, rumeno, indiscusso pioniere dell’aereofotografia per la ricognizione archeologica, ha disseppellito intere civiltà delle quali poco o niente sapevamo, compresa Metaponto. Il suo pensiero è così attuale che quando sono sulla spianata delle Tavole, fasciato solo di vento, con lo sguardo puntato alla sommità di quel monumento tappa del Gran Tour, il ricordo corre ad una sua intervista ormai datata».

Non sarebbe male recuperarla!

«Argomentava sull’uomo moderno che più va avanti nelle tecnologie e più aumenta il suo desiderio di tuffarsi nel passato. Non si spiegherebbero del resto tanti nostri comportamenti come quello di fotografare, in special modo con i cellulari, edifici fatiscenti, vicoli sordidi, persone anziane o vecchie magari in abiti non proprio alla moda, dalle mani nodose o dalle fisionomie caratteristiche. E qualora non vi sia abbastanza sapore di antico, tendiamo ad “invecchiare” levigando le immagini».

Come non visitarle, allora…

«Un viaggio alle Tavole Palatine può rendere paga questa nostalgia ancestrale che ci domina. La nostra solitudine farà il paio con quella del monumento. L’anima si protenderà verso l’alto, proprio come quelle maestose colonne, dinanzi al mistero della vita. Al tempo che scorre. Avremmo un pò tutti bisogno di un viaggio nel tempo dove non saremo mai soli, ma con noi stessi».

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