Netanyahu, il G7 Esteri sposa la linea italiana: no all’equiparazione tra Israele e Hamas
«Non può esserci equivalenza tra il gruppo terroristico Hamas e lo Stato di Israele». Il G7 dei ministri degli Esteri, che si è chiuso a Fiuggi, ha fatto propria la linea tracciata dall’Italia, dopo la sentenza della Corte penale internazionale che ha emesso mandati di arresto per crimini di guerra nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. Il documento, ribadendo il diritto dello Stato ebraico a difendersi e dunque il sostegno a Israele, conferma anche la necessità del rispetto del diritto internazionale.
Israele ha il diritto di difendersi, ma rispettando il diritto internazionale
«Nell’esercizio del suo diritto di difendersi, Israele deve rispettare pienamente i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale in tutte le circostanze, incluso il diritto internazionale umanitario», si legge nel documento conclusivo. Il testo riafferma, in ultimo, l’impegno del Gruppo dei Sette a operare nel rispetto delle norme che regolano l’ordine internazionale.
A margine del summit, il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha chiarito la posizione italiana, sottolineando la complessità giuridica della questione: «Noi rispetteremo il diritto, ma bisogna vedere cosa dice, capire se le alte cariche dello Stato sono garantite e se sono al di fuori della decisione. Bisogna leggere le carte, comprendere i limiti. Ci sono molti dubbi giuridici; la fattibilità mi sembra molto teorica».
Rispondendo poi sull’attuazione del mandato d’arresto emesso dalla Cpi contro Benjamin Netanyahu, Tajani ha aggiunto: «Mi sembra molto velleitario e inattuabile l’arresto. Netanyahu non andrà mai in un Paese dove verrà arrestato. Bisogna fare cose che siano attuabili. Non si può mettere sullo steso piano Israele e Hamas». Il ministro ha ribadito l’appello a Israele, che non è firmatario dello Statuto della Cpi, affinché rispetti «il diritto internazionale in tutte le sue sfaccettature».
Netanyahu e la giustizia internazionale
La figura di Benjamin Netanyahu è al centro dell’intricato dibattito. Il premier israeliano, già impegnato nella gestione delle guerre su più fronti si trova sotto il mirino della Cpi, che ha emesso un mandato di arresto nei suoi confronti, così come per l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant e il leader di Hamas Mohammed Deif. Una decisione che l’Unione Europea considera vincolante, come ha ribadito Josep Borrell, Alto rappresentante per la Politica estera: «Non si può applaudire quando la Corte va contro Putin e rimanere in silenzio quando va contro Netanyahu».
Anche i guai interni aspettano Bibi
Ma il giudizio su Netanyahu non si ferma alle aule della Cpi. Il Tribunale distrettuale di Gerusalemme ha rinviato di otto giorni la sua deposizione nel processo per corruzione, dopo aver già respinto, nelle settimane precedenti, la richiesta del primo ministro di un posticipo di dieci settimane. I legali di Netanyahu a quel punto chiesero un’ulteriore richiesta di rinvio, questa volta di 15 giorni, giustificandola con le difficoltà del premier nel prepararsi a causa delle crisi belliche in corso a Gaza e in Libano.
La questione della neutralità della giustizia internazionale
Il G7 si trova a navigare tra le diverse posizioni dei suoi membri. Gli Stati Uniti, che non hanno firmato la Convenzione di Roma, mantengono una linea distante rispetto alla Cpi, mentre l’Ue insiste sulla necessità di rispettarne le decisioni. «Non è una questione che piace o no, è un obbligo», ha scandito Borrell, evidenziando la divergenza tra Washington e Bruxelles su un tema tanto delicato quanto divisivo.
L’appello accorato per un cessate il fuoco
Intanto, il Medio Oriente brucia. Con un Libano sull’orlo del collasso e «100mila abitazioni distrutte», Borrell ha lanciato un appello accorato: «Basta combattimenti, basta uccisioni, è tempo di pensare alla pace». La pressione su Tel Aviv aumenta, con il mondo che spinge per un cessate il fuoco atteso in serata. «Siamo sula strada giusta», ha affermato Tajani. «Speriamo si possa realizzare questo primo risultato importante per avviare una de-escalation».
Il Times of Israel parla di un cessate il fuoco di 60 giorni. Eppure altre fonti non ne sono così certe. «Non sappiamo quanto durerà – riporta funzionario – Potrebbe essere un mese, potrebbe essere un anno».
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