Consorzi di bonifica, Veneto alle urne. il direttore Crestani: «Un voto per il clima»
Poche elezioni sono tanto sottovalutate, nonostante la loro importanza, quanto quelle delle assemblee dei consorzi di bonifica, che il prossimo 15 dicembre chiameranno alle urne un milione e 800 mila veneti; eppure i consorzi assolvono a tre compiti fondamentali, soprattutto nella nostra regione: la sicurezza idraulica del territorio, l’irrigazione per l’agricoltura e la tutela ambientale.
Dieci enti
Questi enti sono dieci (più il Lessinio Euganeo Berico, in cui non si vota essendo di secondo grado) e gestiscono un milione e 200 mila ettari di territorio, cioè quasi tre quarti della superficie del Veneto, escluse le aree al di sopra dei 300 metri, cioè quasi tutta la provincia di Belluno, e i centri di Verona, Treviso e in parte Padova.
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«Possiamo affermare tranquillamente che senza i consorzi di bonifica buona parte del Veneto nemmeno esisterebbe», dichiara Andrea Crestani, direttore dell’Anbi, l’associazione che li rappresenta, «Un terzo della nostra pianura è infatti sotto il livello del mare, e se una delle 400 idrovore da noi gestite (la metà di quelle esistenti in Italia) smettesse di funzionare, rischierebbe di finire sott’acqua un’intera città».
Per far fronte a questi compiti i consorzi possono contare su una forza lavoro complessiva di 1400 dipendenti, il 60% operai, «con una macchina organizzativa che si è andata via via riducendo e riorganizzando», assicura Crestani, «a beneficio della manutenzione. Dei quasi 150 milioni di euro raccolti ogni anno dai propri contributori i consorzi ne destinano a questo fine il 60%, senza nessun contributo pubblico».
Negli ultimi anni ad esempio sono stati completati dai consorzi ben 108 microbacini, capaci di intercettare 10 milioni di metri cubi d’acqua. Complessivamente essi gestiscono 25 mila chilometri di corsi d’acqua, implementando (in sinergia con la Regione) le opere di difesa idraulica e irrigue, la realizzazione delle barriere antisale, il risezionamento dei canali, il potenziamento degli impianti idrovori etc.
Stop cemento
In questo loro lavoro i consorzi sono spesso investiti dal conflitto – sempre più acuto negli ultimi tempi – tra i fautori delle grandi opere di ingegneria idraulica (dighe, bacini, argini) e i sostenitori della rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, per restituire ad essi gli spazi che la cementificazione selvaggia degli ultimi decenni ha loro sottratto, con gli effetti drammatici che vediamo in occasione di forti precipitazioni.
Come ci si regola di fronte a queste diatribe? «Non possiamo che coniugare ingegneria e natura», risponde Crestani, «Non dobbiamo infatti dimenticare che il territorio del Veneto attuale è in gran parte artificiale, ricavato da terreni acquitrinosi grazie a grandi opere idrauliche che per secoli hanno prosciugato, alzato, spostato e indirizzato al mare enormi quantità di acqua. L’abbiamo fatto così bene che i veneti si sono dimenticati di com’era la loro terra nel passato. Ora, se per rinaturalizzazione intendiamo lasciare liberi i corsi d’acqua di scorazzare nel territorio, bisogna avere chiaro cosa questo significherebbe per le attività produttive e per i milioni di persone insediate nella parte del Veneto (455 mila ettari su 1, 2 milioni) che sta sotto il livello del mare. Al tempo stesso però nelle opere che andiamo a realizzare la nostra priorità è assicurare il massimo della sostenibilità e della naturalità. In tutti i progetti accanto agli ingegneri idraulici operano gli ingegneri ambientali, per evitare che le future opere si rivelino – com’è avvenuto a volte nel passato – inutili o addirittura controproducenti».
Le tombinature del passato
A cosa si riferisce? «Ad esempio», continua il direttore, «alle grandi tombinature, che nel passato hanno spesso rinchiuso i corsi d’acqua in condotte che oggi si rivelano drammaticamente insufficienti. Ma è tutta la società veneta che deve prendere atto della nuova realtà determinata dal cambiamento climatico, e in primo luogo i decisori politici, che con incredibile miopia non hanno ancora capito che va bloccato subito il consumo di suolo: è possibile che 70 mila ettari di cemento insistano su aree che una volta erano palude o soggette a impaludamento, e che ancora non ci si fermi? Se in queste aree costruiamo nuovi edifici, e magari scaviamo anche degli scantinati, poi quanto i fiumi tracimano per una pioggia torrenziale dove andrà quell’acqua se non negli scantinati e nelle case?». L’appello di Crestani: « Bisogna fermarsi subito, e intanto portare avanti le opere di contenimento progettate, ma farlo in fretta perché il clima cambia con velocità maggiore della nostra capacità di adattamento».
Le emergenze
Alla luce dei fatti di cronaca ci si chiede quali siano oggi le emergenze maggiori e, soprattutto, quali gli interventi prioritari per contenerle. «Il grande problema, più ancora dei fiumi che tracimano», risponde Crestani, «è la gestione delle acque meteoriche e delle reti fognarie nelle città, che letteralmente esplodono nel caso di precipitazioni estreme.Anche qui: magari cinquant’anni fa sono state collocate delle tubature dove c’era un canale, e queste tubature servivano 50 case; nel frattempo le case sono magari triplicate, ma le tubature sono rimaste le stesse, e ovviamente quando piove troppo saltano i tombini. Sostituire le tubature sarebbe un’impresa titanica, considerato anche che i comuni spesso nemmeno conoscono i loro tracciati, senza contare che di soldi non ne hanno. Non è neanche ipotizzabile che siano i cittadini a pagare questi interventi, dovrebbe intervenire lo Stato con la fiscalità generale, garantendo i finanziamenti necessari per decenni, ma non mi sembra che qualcuno stia davvero mettendo davvero la testa su questi problemi. Io da cittadino preferirei che si realizzasse un’opera idraulica piuttosto che una nuova strada».