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La prorettrice del Politecnico di Torino si fa chiamare “prorettore”. Ed è subito scandalo

La prorettrice del Politecnico di Torino, Maria Elena Baralis, ha scelto di riferirsi a se stessa come “prorettore”, privilegiando il maschile riferito al ruolo rispetto al femminile riferito al genere. Discorso che vale anche per il suo incarico di docente: sulla sua pagina istituzionale, sul sito dell’università, si legge “Professore ordinario di sistemi di elaborazione delle informazioni” e non “professoressa”. La decisione sta avendo una certa eco mediatica, tanto da guadagnarsi l’attenzione dell’edizione locale del Corriere della Sera, che nel titolo parla di “abiura” rispetto alla scelta di “linguaggio inclusivo” compiuta dall’ateneo.

Il “caso” della prorettrice che si fa chiamare prorettore

Sulla vicenda è stata interpellata anche la direttrice del centro studi di genere del Politecnico, Arianna Montorsi, che ha sottolineato che “sicuramente non si tratta di una decisione che rappresenta questa istituzione. Qui, solitamente, si declina l’incarico al maschile per gli uomini e al femminile per le donne. Poi, naturalmente, c’è la libertà del singolo che può scegliere di procedere diversamente”. Per lo meno non siamo agli eccessi dell’università di Trento, dove la grande battaglia per l’inclusione è diventata l’affermazione da regolamento del “femminile sovraesteso” ovvero utilizzato per indicare tutti gli incarichi, a prescindere dal fatto che a ricoprirli fossero uomini o donne.

Il diktat del linguaggio inclusivo

Baralis non ha voluto commentare il caso che l’ha investita, probabilmente non intenzionata ad alimentare una polemica che, a dispetto di come viene presentata, non ruota affatto intorno a un arretramento delle battaglie per la parità di genere. E, semmai, racconta della libertà affermata da alcune di non piegarsi a diktat linguistici che rischiano di essere una foglia di fico o una distrazione rispetto alle questioni di sostanza.

Il parallelo con “il” presidente del Consiglio

Fa una certa impressione che tanto il Corriere, quanto Open che ne ha ripreso l’articolo, sottolineino fin dalle prime righe della cronaca che dopo “il presidente del Consiglio” ci si misuri con “il prorettore”. Una notazione che rimanda all’idea che Baralis sia in qualche modo una meloniana, questione della quale per la verità non si sa nulla se non che, come il premier, abbia scelto di declinare i propri titoli sulla base del ruolo e non del genere. Il dibattito intorno alle due opzioni, com’è noto, è acceso e vide un picco proprio quando Meloni annunciò la sua scelta. Pensare però che sia uno spartiacque tra chi è dalla parte delle donne e chi non lo è rappresenta un tic mentale introdotto dal conformismo di certa sinistra e di certo femminismo, che talvolta sfocia una pulsione prevaricante, con forme di aggressività inammissibili.

Lo stigma nei confronti di chi si sottrae al grammaticalmente corretto

In queste stesse ore in cui emerge il caso del Politecnico, un episodio ricordato da Ambra Angiolini in una intervista al Fatto quotidiano di oggi aiuta a capire di cosa si stia parlando. “È stata dura essere compresa quando nel 2023 scelsi la provocazione di un monologo sulle vocali (“Avvocata, ingegnera, architetta, tutte queste vocali in fondo alle parole sono, saranno armi di distrazione di massa?”, ndr): non intendevo screditare la parità grammaticale, ma richiamare a quella salariale, alla concretezza”, ha spiegato, sottolineando che “dopo quel Primo maggio non sono potuta uscire di casa per una settimana, eppure non smetterò mai di battermi: non abbiamo bisogno di link, ma di sostanza”.

Non “capatrena”, ma fatti

Anche di Ambra non risulta che sia una meloniana, eppure anche nelle sue parole echeggia il messaggio che il presidente del Consiglio ha spesso mandato sul tema e nel quale si ritrovano in tante: “A dispetto delle femministe, assessora, presidenta, capatrena, io ho un’altra idea: va bene il presidente, ma sono fiera che sia sotto questo governo, per la prima volta guidato da una donna, che le donne hanno il tasso di occupazione più alto”. E, alla fine, il punto è tutto lì: per qualcuno il morettiano “le parole sono importanti” sembra predominante sull’importanza dei fatti. Altri e altre, oltretutto con il benestare della Crusca, ritengono che non sia in questo modo che si afferma la parità. Anche perché sulla questione aleggia una domanda di fondo: siamo sicuri che stare lì a strapazzare la lingua non finisca per allungare le distanze invece di accorciarle?

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