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Sull'Ucraina Trump guarda a Eisenhower e Nixon

Se il piano di pace di Donald Trump sull’Ucraina resta ancora in gran parte avvolto nel mistero, alcuni elementi della sua strategia negoziale iniziano a emergere. Innanzitutto, il suo team non ha preso le distanze dall’autorizzazione che Joe Biden ha dato a Kiev per utilizzare i missili Atacms in territorio russo. Anzi, vari esponenti dell’entourage nel presidente in pectore hanno confermato che, sulle questioni di politica estera, si sta registrando una stretta collaborazione con l’amministrazione Biden. Il 24 novembre, il consigliere per la sicurezza nazionale in pectore, Mike Waltz, ha detto che sta lavorando “a stretto contatto” con il team del presidente uscente. Mercoledì scorso, il prossimo inviato speciale per l’Ucraina e la Russia, Keith Kellogg, ha commentato positivamente i recenti sforzi di Biden volti a rafforzare la posizione di Kiev. “Sono davvero molto positivi per il presidente in pectore perché gli danno una leva”. Trump, dal canto suo, si è finora astenuto dal criticare l’ok all’uso dei missili Atacms.

È chiaro che, così facendo, il presidente in pectore punta a mettere sotto pressione il Cremlino. Contrariamente a chi lo ha spesso accusato di volere un appeasement nei confronti di Mosca, il tycoon punta alla pace, sì, ma a una pace strettamente vincolata al ripristino della deterrenza. D’altronde, la diplomazia comprende vari elementi: quello del dialogo, sì, ma anche quello della pressione e finanche della minaccia. Trump vuole in altre parole trasmettere a Vladimir Putin un messaggio chiaro: e cioè quello di non essere disposto a un accordo a tutti i costi. Il tycoon sa d’altronde che un appeasement comporterebbe un effetto domino paragonabile a quello innescato dalla disastrosa gestione del ritiro afgano condotto da Biden nel 2021. In parole povere, Trump pagherebbe l’appeasement con Putin su altri fronti, a partire dall’Indo-Pacifico. Uno scenario, questo, che il tycoon non può assolutamente permettersi.

È anche in quest’ottica che va letto il recente riesplodere della crisi siriana. È probabile che, almeno in parte, l’offensiva dei ribelli contro Bashar al Assad nasca da un sotterraneo gioco di sponda tra Washington e Ankara. È chiaro che, se così fosse, Trump potrebbe approfittarne non solo per debilitare ulteriormente l’Iran ma, venendo al dossier ucraino, per avere maggiori margini di manovra nelle trattative con il presidente russo. L’indebolimento di Assad fiacca infatti indirettamente la posizione negoziale dello zar sull’Ucraina.

Dall’altra parte, attenzione. Se ha intenzione di mettere Putin sotto pressione, Trump punta anche a far sì che Volodymyr Zelensky si sieda al tavolo delle trattative, abbandonando la sua storica precondizione: e cioè il ritiro unilaterale delle truppe russe dai territori ucraini occupati. Per Trump, tale precondizione non è realistica. E non è un caso che, negli scorsi mesi, Kellogg abbia teorizzato di subordinare l’invio di armi a Kiev alla sua disponibilità a sedersi al tavolo dei negoziati. Nelle ultime settimane, il presidente ucraino sembra aver parzialmente ammorbidito le sue posizioni (a partire dalla Crimea). D’altronde, Trump ha cercato di mettere anche lui sotto pressione. Quando il Washington Post riferì di una presunta telefonata tra il tycoon e Putin dopo le elezioni americane del 5 novembre, lo zar ha smentito, mentre il team di transizione di Trump si è trincerato dietro un “no comment”. Un segnale in codice a Zelensky, con cui il presidente americano in pectore gli ha fatto capire che, se avesse continuato a opporsi all’avvio di negoziati, sarebbe stato pronto a firmare un’intesa senza di lui.

Insomma, sia con Putin che con il leader ucraino, Trump sta portando avanti una linea articolata, non priva di ambiguità strategica. L’obiettivo è quello di metterli sotto pressione entrambi: il primo, per spuntare l’accordo migliore possibile; il secondo, per convincerlo ad avviare dei negoziati. E attenzione: non è escludibile che, a livello di strategia diplomatica, Trump stia guardando a due precedenti storici. Nel 1953, Dwight Eisenhower convinse la Cina a dare l’ok alle trattative per arrivare all’armistizio in Corea, dopo averla minacciata con le armi nucleari. Dall’altra parte, l’allora presidente americano approvò quell’accordo, nonostante l’opposizione dell’alleato sudcoreano, Syngman Rhee. Anni dopo, Richard Nixon bombardò pesantemente la Cambogia per intimidire Hanoi e spuntare il miglior accordo possibile sulla conclusione della guerra in Vietnam. Dall’altra parte, costrinse di fatto il presidente sudcoreano Nguyan Van Thieu ad accettare gli accordi di pace di Parigi del 1973, in cambio di rassicurazioni militari qualora il Vietnam del Nord avesse violato l’intesa. In entrambi i casi, la strategia americana è stata quella di combinare minacce verso gli avversari con pressioni nei confronti degli alleati.

Ecco, se si vuole capire realmente come Trump si sta muovendo sul dossier ucraino, è ai precedenti del 1953 e del 1973 che bisogna guardare. Il tycoon potrebbe, cioé, fare ricorso alla cosiddetta madman theory, improntando la sua strategia diplomatica sull'intimidazione dei propri interlocutori in nome di una minacciosa imprevedibilità. Il presidente americano in pectore non è né un pacifista né un filorusso, con buona pace delle narrazioni ideologiche uguali e contrarie che da tempo imperversano. Trump è semmai un pragmatico con il senso della deterrenza. Ed è in quest’ottica che bisogna entrare per capire le sue mosse.

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