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Speciale Scala di Milano - L'opera lirica tra fato e speranza

A lvaro lo urla a una manciata di battute dalla fine dell’opera: «Destino avverso, come a schermo mi prendi…». Certo, perché il destino «può essere quella forza cieca che governa attraverso il caso gli avvenimenti della vita». Sintesi perfetta della trama de La forza del destino di Giuseppe Verdi. Ma questo è il destino «non pensato cristianamente» precisa padre Giuseppe Barzaghi, domenicano, filosofo e teologo, direttore della Scuola di anagogia di Bologna, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. «E anche musicista, perché ho studiato pianoforte, anche se è da un po’ che non metto le mani sulla tastiera. Ma soprattutto nipote di un nonno melomane che quando uscivo di casa per andare all’università a sostenere gli esami mi avvertiva: “Ritorna vincitor!” citando la verdiana Aida». Perché il destino «pensato cristianamente è altro, è provvidenza, è sicurezza, è fiducia» racconta padre Barzaghi, classe 1958, nato a Monza, a un passo dai luoghi manzoniani che «la provvidenza» evoca.

Ma partiamo dall’inizio. «Partiamo dalla Sinfonia de La forza del destino che si apre con gli accordi degli ottoni, colpi, come di qualcuno che bussa alla porta. E subito ti viene in mente la Quinta di Beethoven, con il suo inizio inconfondibile. Che racconta, appunto, il destino. Sinfonia in do minore, la tonalità tragica per eccellenza. Ma se guardiamo a Johann Sebastian Bach ci accorgiamo che il do minore per lui non è affatto la tonalità tragica, ma è quella che racconta un abbandono fiducioso» riflette padre Barzaghi. Che va poi con la mente alla Suite n.5 in do minore per violoncello.

«Il violoncello, la voce umana per eccellenza tra gli strumenti musicali, non narra con questo do minore una disperazione, ma un abbandono, una consegna fiduciosa… Soli Deo Gloria scriveva Bach alla fine di ogni sua partitura. Ancora, pensiamo a un’altra grande pagina in do minore, l’Offerta musicale che si dice sia su un tema regalato al compositore da Federico II di Prussia. Un’architettura perfetta che ha in sé numerosi riferimenti teologici» aggiunge ancora il teologo domenicano, «ultimo degli scolastici» come si definisce, facendo risalire il suo pensiero a quello di Tommaso d’Aquino. Il santo filosofo e teologo «che non teme di chiamare il destino fato, parola che evocherebbe qualcosa di occulto e misterioso. Ma per san Tommaso il fato è il riflesso nell’ordine delle creature della provvidenza che è nella mente di Dio. Per spiegarlo il teologo fa un esempio. Racconta di due servi, al servizio di uno stesso padrone, che si incontrano per caso al mercato dove si sono recati all’insaputa l’uno dell’altro. Solo il padrone sapeva bene che si sarebbero incontrati perché era stato lui a mandarli. Ecco la casualità dell’avvenimento, governata però da qualcuno, per chi ci crede da Dio. E questa è la provvidenza. «Che, nell’ordine creaturale è il fato, secondo Tommaso d’Aquino».

Provvidenza. Parola che evoca i manzoniani Promessi sposi. «Provvidenza che non è previdenza. Perché pre-videnza è un vedere prima, quasi un indovinare nel futuro. Pro-vvidenza è il vedere davanti, nel presente, in ciò che ci accade, è leggere nel nostro presente i segni di Dio» spiega, sviscerando il significato delle parole. «Parlando dei fatti della nostra vita diciamo: è accaduto per caso. Ma diciamo anche: è capitato. Due espressioni profondamente diverse» riflette padre Barzaghi. «Accadere ha dentro la radice del cadere, qualcosa che non ha un perché, che non mi sollecita e mi spaventa. Capitare ha dentro caput, a dire che da quell’evento capitale, che non è per nulla accidentale, non dettato dal caso, ne scaturiscono altri». Ecco l’inizio della Forza verdiana, quel colpo di pistola iniziale dal quale scaturiscono una serie di eventi che corrono sino al tragico finale.«Capitare. Accadere. Tutto viene percepito come se fosse indicativo di qualcosa di spaventoso e incontrollabile. Ma ecco il salto della fede. Per leggere i segni del destino occorre la fiducia, l’abbandono fiducioso che è la speranza teologale. Il do minore di Bach». Ecco che le morti della Forza si rispecchiano in quelle dei Promessi sposi. Quelle tragiche di Don Rodrigo nel romanzo e di Don Carlo nell’opera, quella manzoniana di Cecilia, messa dalla madre sul carro dei monatti, e quella verdiana di Leonora, che si consegna speranzosa nelle mani di Dio. Lo fa sicura. «Sicura, non solo certa. Perché certezza e sicurezza, che pur noi usiamo attribuendo loro praticamente il medesimo significato, ci raccontano due atteggiamenti diversi. Nella certezza c’è il certamen, il combattimento, c’è la battaglia dove si ha la certezza, appunto, di aver sconfitto un avversario, ma presto ce ne si trova di fronte un altro. “Voi pria cadrete nel fatal certame” canta Alvaro nell’opera, brandendo la spada contro Don Carlo. Invece la sicurezza» precisa filo padre Barzaghi «è una parola che significa sine cura, senza preoccupazione. Allora quando c’è un abbandono c’è una sicurezza, non ci sono preoccupazioni. Non c’è battaglia».

E nel finale, quello che Verdi cambiò profondamente nella versione scaligera del 1869 rispetto a quella di San Pietroburgo del 1862, Leonora canta «Lieta poss’io precederti alla promessa terra, là cesserà la guerra santo l’amor sarà».Ecco, sintetizzato quindi il pensiero di padre Barzaghi, «l’abbandono alla misericordia di Dio, la speranza teologale che è sempre sul presente che viviamo». Il futuro andrebbe preparato non indagato attraverso oroscopi, lettura della mano, fondi di caffè, come fa nell’opera Preziosilla predicendo il destino a Don Carlo. «Il cardinale Giacomo Biffi diceva sempre che la nostra contemporaneità non è priva di fede, ma i nostri contemporanei sono creduloni» commenta Barzaghi. «Niente lettura della mano, nella fede è implicita la razionalità». Niente «destino avverso» che bussa alla porta con il do minore di Beethoven o con gli accordi degli ottoni della Forza. Piuttosto un fato «che è l’altro nome che san Tommaso dà alla provvidenza divina» al quale abbandonarsi. «Come nel do minore di Bach».

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