Architettura. Verso gli ottant’anni dalla morte di Giuseppe Pagano: un razionalista da studiare andando oltre il fascismo e l’antifascismo
Ad aprile del 2025 saranno ottant’anni esatti dalla morte dell’architetto Giuseppe Pagano: deceduto nel campo di concentramento di Mauthausen, a causa di una broncopolmonite, appena tredici giorni prima dell’arrivo dei soldati dell’Armata rossa. Un finale tragico e beffardo per una figura originale e complessa del panorama italiano. Era il 22 aprile 1945 e così moriva uno degli esponenti di quel Razionalismo che fu la cifra artistica del fascismo, movimento politico al quale aveva prima aderito con entusiasmo, per poi schierarsi contro di esso, nel 1942, dopo aver combattuto sul fronte albanese e aver subito la scure della censura.
Il suo nome è ancora in auge tra gli addetti ai lavori, ma la sua figura è negletta rispetto al grande pubblico per la complicità – nell’Italia dei tanti anti a priori – di chi non ha saputo né voluto fare i conti con una vicenda politica e artistica da maneggiare sicuramente con cura, anche al di là delle apparenti dicotomie. Appunto per questo, la sua storia andrebbe riscoperta e posta a fondamento di una riflessione sul superamento definitivo dei conflitti del Novecento. L’architettura si presta a questo scopo, non fosse altro che le sue produzioni – sicuramente per l’ingombro e la mole – sono destinate a sopravvivere ai regimi che le hanno volute e a essere sfruttate dai governanti del futuro in funzione di utilità destinate a non essere superate nel breve periodo.
Giuseppe Pagano nasce a Parenzo, in Istria, il 20 agosto1896. Il padre è Antonio Pogatschinig, fondatore del Partito nazionale italiano, sigla clandestina animata da ideali risorgimentali. Insomma: un irredentista, un patriota. Un sentimento che ha accomunato padre e figlio. Allo scoppio della Grande guerra, infatti, nonostante fosse un cittadino austro-ungarico, Giuseppe si arruola volontario nell’esercito italiano. È in quell’occasione che decide di italianizzare il nome in Pagano, una scelta d’identità inequivocabile. E la guerra l’ha combattuta sul serio: fu ferito, fatto prigioniero e più volte evaso. Finito il conflitto, fonda il fascio di Parenzo per poi seguire Gabriele D’Annunzio a Fiume.
Nel 1924 arriva la laurea in Architettura a Torino. Di lì a poco diventa uno degli esponenti di punta della cultura architettonica italiana. Le sue opere sono severe e antiretoriche. Razionali, appunto. Idee in linea con il dogma che vede nel fascismo il propellente principale della modernizzazione nazionale. Durante il Regime fu uomo di un uomo di partito impegnato, uno degli animatori della Scuola di Mistica.
Nel 1931, a fianco di Edoardo Persico (1900-1936), dirige una delle riviste più autorevoli e – a oggi – longeve del settore, Casabella. E lì resterà fino al 1943 (nel 1940 si occupa anche di Domus). Ed è dagli archivi della rivista, quando ci fu trasferire la redazione da Segrate a Milano perché acquisita da Mondadori, che è venuta fuori una cartelletta di capitale importanza: il progetto completo ed esecutivo dell’Esposizione Universale del 1942. Ovvero: il Piano Regolatore della Città Italiana dell’Economia Corporativa all’Esposizione Universale. Una visione mai realizzata, ma che è su carta (oggetto, peraltro, di un inserto speciale pubblicato sulla stessa rivista nel 2014). E può dirci ancora tanto.
Isidoro Pennisi, docente presso l’Università Mediterraneo di Reggio Calabria, è convinto che in quella cartella ci sia la chiave per comprendere il travaglio interiore di che sapeva che l’Esposizione non avrebbe avuto più luogo e che la guerra avrebbe spazzato via tutto il resto, assieme a un pezzo di sé. «Il tentativo cioè – ci spiega – di tramandare al tempo che veniva la sostanza di un impegno personale nei confronti di una situazione politica verso cui comunque, come minimo, si riteneva fosse giusto mettersi al servizio, anche se ormai maturava la decisione di una rottura, che poi sarebbe avvenuta in termini tragici».
Giuseppe Pagano è un intellettuale che prima di altri ha fatto i conti con sé stesso, senza omettere quanto realizzato in precedenza. In lui è plasticamente visibile il passaggio razionale tra la militanza fascista e l’azione antifascista, un salto che Pennisi inquadra nella categoria – in parte inedita– «dell’oltre fascismo». E spiega: «Io credo che sia chiaro che l’ipotesi dell’oltre, resa del tutto negletta e non praticata dalla dicotomia fascismo versus antifascismo, sia la posizione migliore che si possa assumere anche dentro questi tempi segnati dalla continua disarticolazione delle prospettive culturali».
Andare oltre per trarne quale indirizzo? «Serve dare un contributo finalmente mirato – dice Pennisi – a ricostruire una mappa vera della vicenda fascista non operando delle selezioni a piacimento tra le sue realtà e le idee, ma seguendo le tracce migliori. Migliori non perché giuste o sbagliate, ma perché nette e chiare. E per farlo serve il fiuto dell’onestà intellettuale». Ovvero, quella virtù tutt’altro che ideologica necessaria alla scienza, alla cultura e – talvolta – anche alla politica. Utile a guardare, cioè, alle opere e alle biografie di chi le ha realizzate per quello che sono realmente. Senza calcoli, paure o isterie.
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