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Come sono stati calcolati gli 887 milioni di euro di evasione dell’IVA da parte di Meta

Dopo quasi due anni, è stata chiusa l’inchiesta – condotta dalla Procura di Milano – sulla presunta evasione dell’IVA da parte di Meta a partire dal 2015 fino al 2021. Secondo l’indagine aperta nei confronti dei responsabili legali della holding proprietaria delle piattaforme Facebook, Instagram, Threads e Whatsapp, non sarebbero stati versati al fisco italiano ben 887 milioni di euro (nel periodo in esame), cifra relativa al calcolo basato sull’imponibile di quasi 4 miliardi di euro. Il tutto è relativo all’acquisizione dei dati personali degli utenti italiani (a cui, per la prima volta nella storia, è stato dato un valore economico e, di conseguenza, fiscale) in cambio della fruizione delle piattaforme “gratuita”.

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Un “gratis” che gratis non è. Infatti, la Procura di Milano – come avevamo già raccontato nel febbraio del 2023, non appena trapelata la notizia dell’indagine aperta su spinta dell’EPPO (la Procura Europea) – è partita da una sentenza del Consiglio di Stato (datata 29 marzo 2021) che aveva confermato, in parte, una sanzione comminata dall’Antitrust italiana (AGCM) nei confronti dell’azienda di Menlo Park per le sue pratiche non cristalline nella comunicazione dei fini commerciali (in termini di profilazione) in merito alla raccolta dei dati personali degli utenti che si erano iscritti. Dunque, in violazione degli articolo 21, 22, 24 e 25 del Codice del Consumo.

Evasione IVA Meta, come si è arrivati a 887 milioni di euro

Da lì, dunque, è partito tutto. Fino ad arrivare alla chiusura delle indagini e all’accusa – ora ufficiale – sulla presunta evasione IVA Meta. Ma come è stata calcolata la cifra di 887 milioni di euro? Il calcolo è piuttosto semplice, ma occorre una piccola premessa messa in evidenza da chi ha condotto questa indagine, in cui gli inquirenti hanno sottolineato come

«Meta per consentire agli utenti l’utilizzo del proprio software e dei correlati servizi digitali, acquisisca e gestisca, per scopi commerciali, dati, informazioni personali e interazioni sulle piattaforme di ciascun iscritto, così da instaurare con i fruitori del servizio, in virtù della connessione diretta in termini di proporzionalità quantitativa e qualitativa tra le contrapposte prestazioni, un rapporto di natura sinallagmatica». 

Dunque, si parla di contratto sinallagmatico, ovvero l’utilizzo di un bene o servizio in cambio di un prezzo. In questo caso, secondo gli inquirenti, i dati personali degli utenti ceduti “a titolo gratuito” (per semplificare) al fine di poter utilizzare i servizi e le piattaforme messe a disposizione “gratuitamente” da Meta.

Da tutto ciò si è arrivato a calcolare che l’imponibile – su cui Meta (che all’epoca dei fatti si chiamava ancora Facebook) avrebbe dovuto pagare l’Imposta sul Valore Aggiunto (pari all’aliquota del 22%, come nella maggior parte degli scambi commerciali) – fosse pari a quasi 4 miliardi di euro in Italia (nello specifico si parla di 3.989.197.744,05 miliardi di euro) per i sei anni oggetto dell’indagine. Un imponibile che non è stato dichiarato e che avrebbe dovuto portare a un versamento dell’IVA di circa 887 milioni di euro.

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