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La mamma di una ragazzina presente all’accoltellamento: «Siamo soli e stremati»

«Siamo da soli, soli con una ragazza che nessuno prende in cura e che non si vuole curare. Una ragazza che forse si poteva salvare anni fa, ma adesso appare irrecuperabile. È minorenne, si droga, vittima di se stessa e di un giro che non riusciamo a controllare, ma per lei ci siamo solo noi genitori».

Raffaella è la madre di una della ragazzine che giovedì sera erano in via Castelmenardo, sul luogo dell’aggressione in cui ha rischiato di morire un ragazzo di 22 anni.

“Voi genitori dov’eravate?” è il commento più facile. Lo sa vero?

«Certo, ed è comprensibile, perché ci sono anche ragazzi sbandati che sono il frutto di mancata educazione, di famiglie assenti. Ma quella di mia figlia è un’altra storia, una storia purtroppo comune però a tanti altri ragazzi, oggi, anche qui a Treviso».

Quando inizia?

«Aveva tredici anni, le venne diagnosticato un disturbo della personalità, manifestò i primi problemi a casa, poi a scuola. Era in terza media. Iniziò un percorso di cura tra colloqui e farmaci».

È servito?

«È stata una risposta standard, basica. Quando i problemi sono cresciuti e le difficoltà sono diventate più evidenti non è cambiato nulla: medico, pastiglie, medico, pastiglie. Abbiamo detto che non bastava, che non andava bene. Che serviva un approccio più completo. Nulla».

Cosa intende per completo?

«Un luogo dove potessero gestire la sua malattia a tutto tondo, non sporadicamente».

Ma ci sono Serd, centri diurni, comunità.

«Pensa che non l’abbiamo fatto? Che non ci sia andata? Che non vada? Sa qual è il problema? Parliamo di minorenni, la coercizione non esiste. Se non vuole andare non va. Idem per i medici, i colloqui, le cure».

Impossibile convincerla?

«Le parole non le intendeva ieri come non le intende oggi. Ad un no, ad un obbligo, rispondeva con violenza. In casa da allora è diventata una guerra continua».

Quando è arrivata la droga?

«Solo l’ultimo anno, o poco più. La deriva è iniziata in prima liceo. A scuola abbiamo fatto presente che aveva dei problemi, certificati, il loro interesse non è stato aiutarci a gestirla, ma fare in modo che la scuola non ci andasse di mezzo. Il risultato è che ha iniziato a saltare lezioni, giorni, settimane nel disinteresse».

Voi non avete reagito?

«Abbiamo litigato con la scuola ma abbiamo trovato un muro. E anche quando la portavamo sulla soglia, non sapevamo se ci sarebbe andata. Un giorno fuori con un amico, un giorno con un altro. Un giorno da sola. E la situazione è degenerata facilmente: L’abbiamo trovata ubriaca, ha iniziato ad assumere qualunque tipo di pastiglie trovasse in casa o in giro, a perdersi in compagnie sempre peggiori».

Trattenerla?

«Non ha capito. Ci abbiamo provato, tantissimo, tantissimo mi creda. Ma la reazione era sempre più violenta: dalle urla, agli oggetti rotti, dalle offese alle botte. Alla fine aprire la porta di casa era una liberazione, l’unica liberazione. Abbiamo anche un’altra parte di famiglia da difendere. Abbiamo dovuto togliere i coltelli da casa».

L’avete mai denunciata?

«Alle autorità no, sarebbe benzina su un fuoco già troppo alto. E poi quale sarebbe l’effetto? Farla arrestare? La prigione non guarisce, e non avrebbe salvato noi genitori dal senso di colpa».

Avete chiesto aiuto?

«A tutti: servizi sociali, servizi sanitari. Ma non puoi curare chi non vuole essere curato. Il sistema si ferma davanti al suo no. Siamo riusciti, pagando, a farla ricoverare in una clinica privata trevigiana. Lì stava buona, ma perché la imbottivano: è tornata dipendente dalle benzodiazepine».

La comunità?

«Come le ho detto: non ha mai voluto, e non si possono costringere. Abbiamo provato con San Patrignano: l’hanno cacciata. È tornata a casa. Noi siamo gli unici che possono fare qualcosa oggi».

Le siete rimasti solo voi.

«Più che altro noi, da soli. Ma io e mio marito continuiamo a provarci. Anche se ogni giorno è un dolore, anche se – fa male dirlo – sarebbe meglio uscisse dalla porta e non tornasse».

Ma potrebbe anche essere un “non tornare”...più.

«Lo sappiamo, ma dobbiamo anche difendere la famiglia. Le assicuro non abbiamo più una vita. Ogni giorno il pensiero è a cosa possa succedere, a che cosa possa fare. Non possiamo lasciarla sola, non vuole stare con noi».

Gli amici di sua figlia?

«Ragazzi come lei, che fanno quello che fa lei. Nulla, e droga: canne, cocaina, crack».

Li avete denunciati?

«Mi mancano le prove».

Avete provato a farle tagliare i ponti?

«Come no, ho perfino minacciato alcuni suoi conoscenti. Ma lei se n’è trovata altri».

Soldi?

«Io dormo con la borsa vicino al letto per paura prenda qualcosa. Non glieli diamo più da anni. Ma non è un problema per lei, purtroppo, procurarsi quel che le serve. C’è un sacco di gente pronta ad approfittarsi di ragazzini così. Una dose se spacci un po’, una dose se mi dai qualcosa».

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