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I 50 anni di Frankenstein junior: tutto l’opposto del nobile romanzo che l’ha ispirato

Raccontava Gene Wilder che la cosa più difficile, durante le riprese di Frankenstein junior, uscito negli Usa il 15 dicembre 1974, proprio mezzo secolo fa, era riuscire a non ridere sul set. Lo confermò, oltre che il direttore della fotografia Gerard Hirschfeld, il produttore del film, Michael Gruskoff che, per non rovinare irrimediabilmente le scene con le sue risate, doveva allontanarsi mentre il regista Mel Brooks impartiva ordini agli attori. Insomma un film comico in un film comico. Del resto, cos’altro si poteva pretendere stando a contatto con un personaggio come Marty, l’Igor con il cappuccio nero, gli occhi fuori dalle orbite e la gobba oscillante da destra a sinistra e viceversa? (Nella vita reale Feldman era un comunista convinto nonché vegetariano…). Un vero, divertente casino, quel set, per un film-parodia del nobile romanzo Frankenstein o il Prometeo moderno di Mary Wollstonecraft (Shelley dopo il matrimonio con il poeta britannico), scritto in una piovosa serata del 1816 a Ginevra. Ma dimenticatevi il romanzo.

Frankenstein junior è tutto l’opposto del parto intellettuale ginevrino che, nel corso del tempo, dopo una versione teatrale (1818) della drammaturga Peggy Webling, incoraggiò una sequela di riduzioni cinematografiche: la prima in assoluto fu Frankenstein di James Searle Dawley, del 1910, con Charles Ogle come Mostro; la seconda, del 1915, fu Life Without Soul (Vita senz’anima) di Joseph W.Smaley. Il bronzo lo conseguì nel 1920 il torinese Eugenio Testa con Il mostro di Frankensten. Fino a giungere alla più nota fra tutte, diretta nel 1931 dallo statunitense James Whale, con Boris Karloff nei panni del Mostro. Seguirono, sempre con la coppia Whale-Karloff, i sequel, come si direbbe oggi, La moglie di Frankenstein e Il figlio di Frankenstein, il primo dei quali – dichiarò Gene Wilder, fu d’ispirazione per il suo film. In totale sono una settantina le pellicole a tema ‘frankesteiniano’, fra horror e (soprattutto) parodie.

Mel Brooks non era ancora apparso all’orizzonte quando Mike Medavoy, l’agente di Wilder, gli consigliò, per la sceneggiatura che lui aveva in mente, prima i due co-interpreti del potenziale film (Marty Feldman come Igor e Peter Boyle come Mostro) e poi, come regista, Mel Brooks, ancora impegnato in Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Brooks, prima reticente, poi si convinse, a patto di fare come voleva lui. E il film si fece, finanziato dalla 20th Century Fox con 2,3 milioni di dollari (dopo un no della Columbia). Per di più, Mel Brooks aveva scoperto che Ken Strickfaden, l’autore dei macchinari elettrici con cui erano state realizzate le sequenze di laboratorio nel Frankenstein del 1931 e nei due sequel, era ancora vivo e vegeto. Brooks lo andò a trovare facendogli tirar fuori dal garage tutta la polverosa attrezzatura di oltre quarant’anni prima e la noleggiò (citando Strickfaden nei titoli di coda). E così il progetto partì e andò a finire che lo script portò i nomi di entrambi, Wilder e Brooks, inizialmente poco propenso ai consigli del suo attore e co-sceneggiatore, ma che poi, quasi sempre, finiva per cedere.

In sintesi, la storiella: il nipote del dottor Frankenstein (un arruffato Wilder, doppiato nella versione italiana da Oreste Lionello), prof universitario razionalista e votato alla scienza, ricevuto il testamento del nonno, si reca in Transilvania (dove parlano tedesco invece che romeno…) nell’avito castello dove incontra il gobbo Igor (Feldman), la sua procace assistente Inga (Teri Garr) e la rigida virago Frau Blücher (Cloris Leachman, in realtà ex concorrente a Miss America e Oscar come miglior attrice non protagonista ne L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich). Qui il nipote di Frankenstein cade in una sorta di delirio (saranno stati i geni del nonno che sono esplosi in lui) e diviene egli stesso uno scienziato pazzo che resuscita la creatura gigantesca e mostruosa dell’avo.

Il film, comunque, è passato alla storia per le scene cult e le gag più che per la sua qualità artistica: “Lupo ululì, castello ulula” dice Igor guidando il cocchio che porta Wilder ed Helga al castello. Poi ci sono il balletto in frac e cilindro del Mostro e del Prof che cantano e ‘tiptappano’ con Puttin’ On The Ritz di Iving Berlin; il Mostro che si porta a letto la fidanzata di Wilder (una Madeline Kahn, melodrammatica) che l’ha raggiunto in Transilvania e si gode ciò che nel Mostro è grande anche fra le gambe (non mancano battute volgari ma efficacissime e il film in Italia fu vietato ai minori di 14 anni, mentre avrebbe fatto la gioia dei bambini…).

Fantastica la scena in cui l’eremita Abelardo, cieco, per bontà d’animo offre una minestra al Mostro ma gliela versa, bollente, in mezzo alle gambe e poi gli incendia un dito immaginando sia un sigaro (Abelardo è un impensabile Gene Hackman che chiese a Wilder, di cui era amico, di dargli una parte nel film); e ancora la scena in cui Wilder e la sua assistente trasformano una libreria che nasconde il laboratorio segreto del dr. Frankenstein in una vorticosa porta girevole dove i due restano reciprocamente bloccati; e ancora, i cavalli che nitriscono quando viene fatto il nome di Frau Blücher e tante altre imperdibili gag.

Tutti i protagonisti principali sono, ahimè, passati a miglior vita, a parte il regista Mel Brooks, ex marito di Anne Bancroft, alla quale è stato accanto sino alla morte di lei, nel 2005. Brooks, che il 28 giugno del prossimo anno compirà 99 anni, nel 2007 ha creato musica e testi per una versione teatrale di Frankenstein junior, uno script che resterà immortale.

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