La chiesa dove la pittura è un film
La storia del santuario di San Bernardino a Caravaggio è la vicenda di un pulpito, di un santo venuto a predicare la pace tra le genti in guerra, e della straordinaria impresa artistica che nasce da quei fatti. Nella prima metà del Quattrocento, le due città di Caravaggio e Treviglio si disputano la supremazia della Gera d’Adda, il territorio compreso tra Milano e Bergamo attraversato dal corso del fiume Adda. A Caravaggio le grandi famiglie locali si misurano sui privilegi economici e sui rapporti con la città di Milano e il ducato visconteo, ed è qui che nel 1419 arriva con un intento pacificatore un carismatico francescano, Bernardino degli Albizzeschi.
La bella architettura, che comprende il convento e la chiesa, è lo spazio dove si esalta lo strumento delle prediche del futuro san Bernardino, come ricordato da un confratello: «Lì si conserva il pulpito portatile da cui il santo, molto prima che vi fosse costruito l’edificio, aveva predicato in campo aperto, mentre esortava alla pace gli abitanti di Treviglio e Caravaggio, che erano reciprocamente ostili. Proprio per la pace stabilita laggiù, il luogo che si trovava a metà strada tra i due comuni ebbe il nome di “Campo della pace”».
La forza di quell’intervento porterà, dopo l’apparizione della Madonna nel 1432, alla canonizzazione di san Bernardino nel 1450 e alla costruzione del convento tra 1472 e 1489. La voce del frate aveva interpretato il desiderio di riconciliazione dei fedeli, e pienamente realizzato l’auspicio del fondatore del suo ordine, san Francesco: «Era suo vivo desiderio che tanto lui quanto i frati abbondassero di opere buone, mediante le quali il Signore viene lodato. E diceva: “La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori”».
Nel volume di prossima uscita San Bernardino a Caravaggio. La bellezza ritrovata (La nave di Teseo), i saggi di Francesco Tadino e di GianMaria Labaa consegnano alla memoria la storia artistica del sito, indagandone l’impianto architettonico e diffondendosi sulla decorazione pittorica degli interni, illuminata dagli affreschi di Fermo Stella (1490 circa - 1562 circa). L’opera di Stella - geniale artista originario proprio di Caravaggio - è di fatto il fulcro artistico del santuario ed è una testimonianza del pieno Rinascimento che porta in sé un tentativo di avanzamento, verso una sensibilità quasi proto-manieristica, che ha una una rilevanza che supera i confini della dimensione locale. Essa entra infatti in dialogo, con variazioni e nuove invenzioni, con altre e celebrate opere del Quattrocento tra Lombardia e Piemonte, come il ciclo pittorico di Martino Spanzotti nel tramezzo del convento di San Bernardino a Ivrea o la grande parete con le Storie della vita di Cristo dipinte da Gaudenzio Ferrari nel santuario della Madonna delle Grazie a Varallo (Vc).
Il tramezzo di Stella è un’invenzione formidabile che trasforma la pittura in cinema. Su una parete, come su schermo cinematografico, è proiettata la Passione di Cristo. Vasta, al centro del tramezzo, domina la scena della Crocifissione, affiancata nei riquadri laterali da quattro episodi della vita di Cristo: l’Ultima Cena, il Tradimento di Giuda e l’arresto, il Processo, la Resurrezione. La messa in scena è più compatta, raccolta, rispetto ad altri esempi teatrali come quelli di Ivrea e Varallo.
Sempre nel comparto centrale del tramezzo, Stella raffigura una grande scena d’insieme: è il popolo che si accalca ai piedi delle tre croci in un tripudio di colore, avvolto in abiti di foggia cinquecentesca. I volti, ancorché lambiti dall’orrore della crocifissione, sono rubizzi, vitali, uomini e donne che avremmo incontrato in un mercato dell’epoca, rubati al loro tempo come in un fotogramma. Nella folla si distinguono i lineamenti lividi di Maria e della Maddalena, come se la morte cogliesse anche loro, compartecipi del destino di Cristo nell’attimo in cui incontra il destino di noi tutti, il compimento del tempo mortale.
La conferma dello sguardo sulla realtà di Stella è nell’uomo armato di una lunga pertica che tormenta Gesù in croce con la spugna imbevuta d’aceto. Osservandone il volto, notiamo la deformazione del gozzo, in forma tripartita, che richiama una patologia un tempo diffusa nelle campagne e nelle valli bergamasche, dovuta alla carenza di iodio nell’alimentazione. È un tratto che ritroviamo nella celebre maschera locale, il personaggio di Gioppino, scaltro e sfacciato, che trova forse proprio qui i suoi prodromi.
In alto, nel comparto dell’Ultima cena, l’impianto prospettico si apre sul paesaggio in quattro finestre che rielaborano la lezione leonardesca, incorniciando la figura centrale del Cristo benedicente. Gli apostoli seduti al tavolo appaiono come gli avventori di un’osteria, offrono la schiena distratti dal pasto e riportano, ancora una volta, alla Ultima cena sia di Gaudenzo Ferrari a Varallo sia di Pietro da Cemmo, a Piancogno (Bs). Le figure circondano la mensa, sottolineano la tridimensionalità dello spazio, quasi invitandoci a sedere con loro, nel posto lasciato libero di fronte a Cristo.
Nel riquadro che chiude la narrazione, in basso a destra, Cristo appena risorto è in piedi sul sepolcro, mentre i soldati dalle divise sgargianti scappano increduli. Se il corpo atletico di Cristo che sale sul bordo di pietra rimanda in tutta evidenza a Piero della Francesca, tutto intorno è tumulto e fracasso: la veglia silenziosa di Sansepolcro si trasforma qui in un campo di battaglia squarciato dalla luce della Resurrezione: è il ritorno roboante della vita. Attorno alle storie di Cristo, si agitano profeti e sibille che muovono a festa i loro cartigli, incorniciando un imponente e mosso apparato scenico.
Rispetto a esso, nel libro la Bellezza ritrovata, il saggio di Labaa approfondisce in modo circostanziato i confronti con i maestri lombardi che hanno affrontato il soggetto della Passione. Degli affreschi, poi, la ricerca di Maria Teresa Piovesan offre la minuziosa descrizione del diario di cantiere lungo sette anni di restauri; riserva una particolare attenzione al palinsesto dei precedenti interventi e racconta attraverso utili confronti i diversi stadi della pulitura, individuando le differenti «giornate» di lavoro e i pentimenti riscontrabili nelle opere.
Ecco dunque che nel complesso di San Bernardino a Caravaggio si ammira una lingua pittorica potente e originale del Rinascimento lombardo. E questo luogo di pace capace di rimanere aperto al dialogo con l’arte dei secoli successivi, grazie all’entusiasmo di nuovi mecenati, oggi è finalmente restituito alla sua storia gloriosa.