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Le parole di Meloni su Prodi? Un promemoria sui disastri del “ce lo chiede l’Europa”

A leggere certe cronache e certi commenti del giorno dopo, sembra quasi che ad Atreju Giorgia Meloni abbia improvvisamente deciso di tirare fuori dalla naftalina il nome di Romano Prodi. Il riferimento del premier nel suo discorso di chiusura della kermesse di FdI al Circo Massimo ha suscitato un certo stupore, che però a ben guardare mal si sposa con l’attivismo del Professore per puntellare il centrosinistra allo sbando.

L’attivismo di Prodi per puntellare il centrosinistra

Un ritorno in pompa magna che si è iniziato a registrare quando s’è capito che Elly Schlein non sarebbe stata in grado di mantenere le promesse di rilancio che la sua ascesa alla segreteria Pd aveva portato con sé. E che dagli avvertimenti dell’inizio rivolto alla sinistra è poi passato a un ruolo più attivo per cercare di raddrizzare l’inconcludenza dell’opposizione, con attacchi diretti al governo sia attraverso l’attività da editorialista sia attraverso le ospitate tv. In ultimo, storia di questi giorni, Prodi ha assunto anche i panni del potenziale king maker nell’ambita e lontanissima riscossa della sinistra nei confronti del governo, intervenendo sulla questione del federatore, esplosa intorno al nome dell’ormai ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini.

Le reazioni al discorso di Meloni

Tutto questo per dire che, no, Meloni non s’è improvvisamente ricordata di Prodi perché animata da un “livore” quasi ontologico che, come si legge su Repubblica, “si scarica persino su un signore di 85 anni come Prodi, due volte presidente del Consiglio e presidente della Commissione europea”. È semmai vero il contrario: c’è un signore di 85 anni che non si arrende al nuovo corso impresso dal governo e che si mette a dare lezioni e patenti di credibilità, probabilmente più dall’alto dei suoi trascorsi che della sua età. Trascorsi che sono esattamente quelli cui ha fatto riferimento Meloni per ricordare che ci sono pulpiti dai quali sarebbe meglio astenersi.

Prodi cade dal pero…

Lo stesso Prodi, secondo quanto riferito da alcuni retroscena, ha vestito i panni di quello che cade dal pero. “Mamma mia, se la presidente del Consiglio ritiene di dover rispondere con quei toni evidentemente mi considera influente, al tal punto da dover riscrivere la storia, utilizzando argomenti che di solito si leggono nei social ostili. Reazioni così accese di solito si registrano quando si colpisce nel segno», sono state le parole del Professore riferite da La Stampa. Di contro è possibile anche che “reazioni così accese” si registrino quando le accuse sono non solo sganciate dalla realtà dei fatti, ma anche in fin dei conti lesive di quell’interesse nazionale che è il faro dell’azione del governo.

Quell’idea di Italia che traspare dagli attacchi al premier

Il giudizio su cui Prodi ritiene di averci preso è quello secondo Meloni sarebbe apprezzata “dall’establishment americano perché obbedisce”. Una lettura che non fa torto solo a Meloni e all’azione del suo governo, ma all’Italia alla quale Prodi sostanzialmente non riconosce altra possibilità che quella del cagnolino scodinzolante. Ed è qui che è arrivato quell’affondo di Meloni.

Il promemoria al professore dal palco di Atreju

“Ricordo che diverse cose che ha fatto nella sua vita – svendita dell’Iri, come l’Italia entrò nell’euro, il ruolo determinante nell’ingresso della Cina nel Wto – dimostrano che di obbedienza se ne intende parecchio. Da lui abbiamo imparato che obbedire non porta bene né alla nazione né all’Europa, e abbiamo fatto una scelta diametralmente opposta”, ha detto Meloni dal palco di Atreju. Un promemoria che, secondo quanto riferito dal Corriere della Sera, avrebbe “seccato” Prodi, portandolo a parlare di quella “riscrittura della storia”.

La svendita dell’Iri perché c’erano “obblighi europei”

Epperò, è stato lo stesso Prodi ad ammettere che la svendita tramite privatizzazione dell’Iri, l’Istituto della ricostruzione industriale, di cui fu presidente dal 1982 al 1989 e poi dal 1993 al 1994, è avvenuta suo malgrado perché “erano obblighi europei”. “A me – ammise il professore in una intervista del dicembre 2019 con Lucia Annunziata – che avevo costruito l’Iri, l’avevo risanata e messa posto, era stato dato il compito da Ciampi di privatizzare”. “Si immagini – disse – se io ero così contento di disfare le cose che avevo costruito. Bisognava farlo per rispondere alle regole generali di un mercato in cui eravamo”. Insomma, ce lo chiedeva l’Europa e bisognava obbedire.

L’adesione all’euro: pronostici e realtà

Un po’ quello che è successo anche con l’adesione dell’Italia all’euro, che per i cittadini comportò la famigerata eurotassa e, nonostante la trattativa sul cambio con il marco, avvenne alle condizioni dettate da Bruxelles, che poi si rivelarono foriere di ben altri scenari rispetto al suo famoso pronostico “lavoreremo un giorno di meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più”. Qualche anno fa, sul Corriere della Sera, Francesco Giavazzi parlò di trattative con altri Paesi, tra i quali la Spagna, per cercare di allentare un po’ i parametri di Maastricht, Prodi rispose piccato che mai e poi mai tentò di negoziare un rinvio. Quando poi l’euro entrò effettivamente in vigore, Prodi si trovava alla guida della Commissione Ue, che avrebbe dovuto vigilare per evitare squilibri e speculazioni commerciali e che invece assistette inerme alla galoppata di Berlino, anche a scapito dell’Italia.

Il “grande affare” dell’ingresso della Cina nel Wto

Infine, l’ingresso della Cina nel Wto, che avvenne sempre sotto la sua presidenza Ue e del quale Prodi fu grande sponsor. A distanza di anni quel passaggio che per il Professore avrebbe dovuto migliorare le reciproche condizioni di scambio si è dimostrato di grande vantaggio per Pechino, un po’ meno per le economie occidentali e per il sistema di regole su cui si basa l’organizzazione del commercio internazionale. È stato, insomma, un altro momento cruciale in cui è emersa la scarsa familiarità di Prodi con l’orizzonte dell’interesse nazionale ed europeo.

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