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La Siria e il Grande Reset del Medio Oriente

Il dado è tratto in Siria. I ribelli sostenuti dalla Turchia conquistano pacificamente il Paese, la Russia smobilita uomini e mezzi per riposizionarsi in Libia, Israele si assicura il controllo delle alture del Golan, l’Iran subisce in silenzio l’ennesimo colpo al suo sogno imperiale. Il cosiddetto «asse della resistenza», ovvero la coalizione informale composta da milizie e gruppi politici alleati o sostenuti da Teheran e Mosca, non esiste più.

La marcia su Damasco del leader de facto della Siria, Ahmed al-Sharaa (che conoscevamo con il nome di battaglia Al Joulani), ha infatti messo la pietra tombale sul progetto di corridoio sciita che gli ayatollah e i pasdaran avevano immaginato per estendere il proprio potere su un nuovo Medio Oriente, e che si sarebbe dovuto estendere dalla Persia fino al Libano. Adesso tutto è cambiato e la realtà ci racconta semmai di un futuro prossimo a trazione sunnita (la vocazione maggioritaria dell’Islam mondiale) con accordi al vertice tra Israele, Turchia, Arabia Saudita e con una cartina geografica che, dopo gli ultimi posizionamenti nel risiko mediorientale, è pressoché già definita.

Il capo della Siria - che già si muove, e bene, nel mondo dei media e delle sedi diplomatiche - ha dichiarato che «il Paese è stremato dalla guerra e non rappresenta una minaccia per i suoi vicini o per l'Occidente». E c’è da credergli, visto e considerato che armi e mezzi per combattere sono stati distrutti preventivamente da Gerusalemme per star certi che non si ricostituisca mai più una minaccia jihadista nella regione.

Al Joulani parlando in un'intervista rilasciata alla BBC a Damasco (ha smesso gli abiti da rivoluzionari per vestire un rassicurante abito civile), ha chiesto la revoca delle sanzioni alla Siria. Una richiesta ad oggi ragionevole, che costituisce il primo tassello inevitabile per dare avvio alla ricostruzione della nuova Siria: «Ora, dopo tutto quello che è successo, le sanzioni devono essere revocate perché erano rivolte al vecchio regime. La vittima e l'oppressore non dovrebbero essere trattati allo stesso modo», ha dichiarato. Lui, che ha guidato con straordinari risultati l’offensiva lampo grazie alla quale è stato rovesciato il regime sanguinario di Bashar al-Assad in meno di due settimane, è sì il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo dominante nell'alleanza dei ribelli, in precedenza conosciuto con il nome di Jabhat Al Nusra. Ed è vero che HTS nasce come costola di Al Qaeda, con innesti anche di uomini del defunto Califfato Islamico (Isis). Ma il Califfato sharaitico e oscurantista che immaginava il Califfo Abu Bakr Al Baghdadi e che ha terrorizzato il mondo tra il 2014 e il 2018 è stato consegnato alla storia, e una nuova generazione «ripulita» dai dogmi più retrivi dell’Islam politico è pronta a consegnare la Siria al futuro e alla contemporaneità.

Di segnali in tal senso ve ne sono molti: come il rispetto delle chiese cristiane da parte dei conquistatori, così anche l’apertura dei luoghi santi per gli sciiti, a indicare che non ci sarà alcuna persecuzione della minoranza sciita siriana. Inoltre, durante la marcia su Damasco gli uomini di Al Joulani non hanno decapitato teste, bruciato villaggi o preso di mira civili. Questo perché si considerano essi stessi vittime dei crimini del regime di Assad, e di orrori ne hanno visti sin troppi.

Il nuovo governo nega di voler trasformare la Siria in una versione dell'Afghanistan: «Due Paesi molto diversi, con tradizioni diverse. L’Afghanistan era una società tribale. In Siria c'è una mentalità diversa». E il primo segnale in tal senso è il fatto che crede nell'istruzione per le donne: «Abbiamo avuto università a Idlib per più di otto anni, credo che la percentuale di donne nelle università sia superiore al 60%» ha detto Sharaa, riferendosi alla provincia nord-occidentale della Siria, in mano ai ribelli dal 2011, e dalla quale è partita la riscossa siriana contro il dittatore alawita.

Solo sul consumo di alcolici, Sharaa per ora nicchia: «Ci sono molte cose di cui non ho il diritto di parlare perché sono questioni legali» ha riferito, ed è persino comprensibile (di certo, non è questo un parametro dirimente per giudicare il cammino di un Paese verso la democrazia e/o la stabilità).

Ma Al Joulani ha promesso che istituirà un «comitato siriano di esperti legali per scrivere una costituzione. Saranno loro a decidere. E ogni governante o presidente dovrà seguire la legge». Molti siriani non gli credono ancora: temono che il suo gruppo non abbia rotto con il suo passato estremista e che, non appena le luci della ribalta si saranno spente sulla Siria, arriveranno le strette legali e tornerà la Sharia insieme al terrorismo islamista. Vedremo. Le azioni dei nuovi governanti siriani già nei prossimi mesi chiariranno alla comunità internazionale il tipo di Paese che vogliono che la Siria divenga, e il modo in cui vogliono governarla.

Intanto, però, oggi il Paese è libero: dalla violenza e dalle torture di Stato; dalla élite mafiosa al potere; dalla droga contrabbandata direttamente dai vertici delle istituzioni; dalle milizie straniere di Hezbollah e dal loro brutale modus operandi (e dalle loro armi); dal guinzaglio della Federazione russa e dalle fallimentari trame iraniane. Il reset siriano può dunque cominciare e può persino essere visto come un Grande Reset dell’intero Medio Oriente, con Israele che – fatta pulizia del terrorismo e delle milizie islamiste – può ragionevolmente sedersi a un tavolo di negoziati: per riconoscere il nuovo governo della Siria; per stabilire insieme a Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi e Qatar regole e confini nuovi; per ottenere il riconoscimento di Gerusalemme da parte degli Stati arabi, arrivando così a un appeasement costruttivo e vantaggioso per tutti.

In tutto ciò, ad aver vinto è il popolo siriano, che può ritrovarsi all’interno di nuovi e più sicuri confini e ricongiungersi con i propri affetti (e piangere i morti del regime), contribuendo a trascinare Damasco e la città martire di Aleppo nel XXI secolo. Forse tutto questo ottimismo è eccessivo e la storia smentirà Al Joulani, ma è una fatto che questa è la migliore occasione per costruire una nazione sulla base di un largo consenso popolare.

Il che suona come un campanello d’allarme per l’Iraq ma, soprattutto, per l’Iran degli ayatollah, che non soltanto hanno perso definitivamente ogni presa e dissipato la loro influenza sul Medio Oriente occidentale, ma che a ragione temono di fare la stessa fine degli Assad, volatilizzati in un fine settimana dopo un potere che durava da sessant’anni (poco più della Rivoluzione khomeinista che a partire dal 1979 ha trasfigurato il volto della Persia). Se non è prudente parlare di «primavera siriana» o «rinascita araba», però è certo che il mondo post 7 ottobre ha cambiato significativamente, forse per sempre, il destino del Medio Oriente. Un destino che Teheran ancora non accetta e cui si oppone strenuamente, ma che appare inevitabile che avrà serie ripercussioni sulla Repubblica islamica dell’Iran.

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