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Migranti da Paesi sicuri, la Cassazione smonta le tesi del governo: “Il potere di accertamento del giudice non può essere limitato”

Nelle motivazioni della sentenza sul rinvio pregiudiziale del Tribunale di Roma di luglio, la Cassazione smonta la tesi del governo secondo cui non compete ai giudici dire se un Paese è sicuro. Al contrario, la prima sezione civile della Corte suprema hanno stabilito che “il potere di accertamento” del giudice “non può essere limitato dalla circostanza che uno Stato sia incluso nell’elenco di paesi da considerare sicuri sulla base di informazioni vagliate unicamente nella sede governativa”. La sentenza non riguarda le prime convalide dei trattenimenti in Albania, respinte dai magistrati romani a metà ottobre e impugnate dal Viminale, nel merito del quale la Cassazione deve ancora esprimersi. Ma i principi contenuti nella risposta al Tribunale di Roma impattano direttamente sulla questione, affermando il potere-dovere del giudice di verificare la legittimità della designazione del Paese come sicuro e, nel caso, di disapplicare la norma se incompatibile col diritto sovraordinato, quello europeo.

“Non sta alle toghe decidere se un Paese è sicuro”, va ripetendo la maggioranza da quando i giudici hanno liberato i migranti dai centri in Albania. Questione di compatibilità tra il diritto europeo e la lista di Paesi sicuri stilata dal governo per decreto. A luglio, quando le strutture albanesi di Gjader e Shenjin non avevano ancora aperto i cancelli, il Tribunale di Roma ha presentato un rinvio pregiudiziale a partire dal mancato riconoscimento dell’asilo a un cittadino tunisino. I giudici della sezione specializzata in protezione internazionale hanno chiesto alla Cassazione se, nella decisione di merito, avrebbero dovuto attenersi alla lista del governo o se verificare d’ufficio la situazione del Paese in base alle fonti indicate dalla normativa europea. Nella sentenza depositata ieri, la Corte suprema smonta decisamente la tesi del governo sull’incompetenza dei magistrati: “Il potere di accertamento del giudice non può essere limitato dalla circostanza che uno Stato sia incluso nell’elenco di paesi da considerare sicuri sulla base di informazioni vagliate unicamente nella sede governativa”.

È vero, il rinvio si riferiva alla lista contenuta nel decreto interministeriale del 7 maggio scorso, sostituito a ottobre da un decreto legge con cui il governo ha voluto rendere norma primaria l’elenco dei Paesi sicuri, convinto che i giudici non avrebbero più potuto disapplicarlo. Ma la sostanza non cambia. Anzi, basandosi sulla primazia del diritto europeo in materia, la Cassazione demolisce anche questa convinzione e precisa che “l’inserimento di un Paese nella lista di quelli sicuri non è un atto politico perché deriva dalla applicazione dei criteri individuati dalla direttiva europea 32/2013 e dalla normativa italiana che l’ha recepita”. Al contrario, “la nozione di paese di origine sicuro ha carattere giuridico”. Così, “quando si tratta di verificare la sussistenza in concreto dei criteri, normativamente predefiniti, che consentono di qualificare un paese come sicuro, la presenza di un aspetto politico non può giustificare il ritrarsi del controllo giurisdizionale“.

La Cassazione cita anche la Corte di giustizia europea, che nel frattempo, il 4 ottobre scorso, si era espressa stabilendo l’obbligo del giudice di verificare d’ufficio la legittimità della designazione del Paese d’origine come sicuro. Il potere-dovere del giudice di sindacare sulla designazione del Paese sicuro, si legge ora nelle motivazioni della Cassazione, “è una soluzione che discende de plano dalla sentenza della Corte di giustizia del 4 ottobre 2024”. E non c’è bisogno di provare che il Paese è insicuro per il singolo caso, come il governo ha sostenuto nei ricorsi contro le mancate convalide dei trattenimenti in Albania. Perché la questione è distinta e ha a che fare con le ripercussioni che la designazione di Paese sicuro ha sulle procedure per l’esame delle domande d’asilo, compresa la possibilità di applicare un esame sommario con tempi e tutele ridotti, come in Albania. “Non sarebbe infatti compatibile con il diritto dell’Unione, avendo riguardo in particolare al diritto ad un ricorso effettivo, la circostanza che una domanda di protezione internazionale venga interpretata nel senso che i motivi che hanno indotto l’autorità amministrativa competente ad esaminare la domanda con procedura accelerata non possano costituire l’oggetto di alcun controllo giurisdizionale”.

In concreto, il giudice “è tenuto ad effettuare una verifica aggiornata della situazione del paese di origine, dovendo giudicare sulla domanda di asilo alla luce delle condizioni di fatto sussistenti al momento della decisione. La necessità di una valutazione aggiornata non riguarda soltanto il merito della domanda di protezione internazionale, ma anche l’utilizzabilità della procedura prevista per i migranti provenienti da paesi sicuri. Se così non fosse, sarebbe vulnerato il significato più profondo dell’effettività della tutela garantita dal giudice ordinario quando sono in gioco diritti fondamentali che attengono al diritto di asilo e di protezione internazionale”. Per questo, conclude la Cassazione, “il giudice può valutare la sussistenza dei presupposti di legittimità di tale designazione, ed eventualmente disapplicare in via incidentale il decreto ministeriale recante la lista dei Paesi di origine sicuri allorché la designazione operata dall’autorità governativa contrasti in modo manifesto con i criteri di qualificazione stabiliti dalla normativa europea o nazionale”.

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