“Tre macchine dei carabinieri mi hanno inchiodato davanti, pistole in mano e mi hanno ammanettato. Ho pensato a Scherzi a parte”: Michele Padovano e l’incubo giudiziario durato 17 anni
Da una carriera di successo come calciatore all’incubo del carcere sperimentato da innocente. È quanto accaduto a Michele Padovano, che per 17 anni è stato coinvolto in una vicenda che ha cambiato la vita sua e della famiglia. Ospite a “Verissimo” il 21 dicembre, l’ex attaccante della Juventus ricorda i 3 mesi di carcere e i tanti anni di processo prima di arrivare all’assoluzione. Una storia ripercorsa anche nel libro “Tra la Champions e la libertà”. Il 10 maggio 2006, all’uscita da un ristorante, Padovano viene arrestato dalla polizia: “Non lo dimenticherò mai. Ho pensato a Scherzi a Parte perché la modalità con cui mi hanno arrestato è stata molto dura. In caserma mi hanno dato un’ordinanza di 500 pagine dove mi hanno accusato di spaccio internazionale di stupefacenti”.
IL MOMENTO DELL’ARRESTO – Tutto inizia per un prestito ad un amico di 36mila euro: “Abbiamo dimostrato nei vari processi che quei soldi lui li ha usati per comprare dei cavalli, purtroppo né in primo grado né in appello siamo stati creduti, ma alla fine ero convinto che qualcuno si sarebbe reso conto che io in questa vicenda non c’entravo nulla” spiega nel salotto di Silvia Toffanin, alla quale racconta il momento esatto dell’arresto: “Tre macchine dei carabinieri mi hanno fermato a un incrocio, inchiodandomi davanti, con pistole in mano, mi hanno ammanettato e portato subito a casa mia per fare la perquisizione, poi a Venaria per le foto segnaletiche e le impronte digitali, e di lì mi hanno portato a Cuneo dove sono stato 10 giorni in isolamento. Non ho visto l’aria, non ho fatto mai una doccia, è stata una condizione veramente terribile”. A quel punto il trasferimento nel carcere di Bergamo per 3 mesi.
UN DANNO ANCHE ECONOMICO – Un’esperienza a dir poco traumatica: “È stata molto dura perché quando non te lo aspetti è peggio ancora. Il criminale mette in conto di andare in carcere, ma io non avevo commesso nulla”. E ancora: “Non ho avuto nessun risarcimento, nel 2006 avevo molte proprietà immobiliari e guadagnavo bene. Mi sono però dovuto difendere in questi anni e oggi non ho più niente, ma ho la mia famiglia e credo che la vera ricchezza sia questa. Spero di poter tornare e avere qualche lavoro interessante soprattutto nel mio ambiente”.
L’AMORE DEI FAMILIARI – Accanto a lui due persone che non hanno mai dubitato della sua innocenza: la moglie Adriana e il figlio Denis: “Mia moglie è stata l’unica persona che ha sempre detto ‘Quando sarai assolto’. Dopo le prime due condanne, sia in primo grado che in appello, io ho vacillato, ma lei ha tenuto salda la nostra famiglia: ha deciso lei di cambiare gli avvocati, io non ero così convinto, le risorse stavano finendo, gli avvocati costano, ma sono molto orgoglioso di loro”.
LA FINE DI UN INCUBO – Il momento più bello? Ovviamente il lieto fine di questa travagliata storia: “Quando mi hanno chiamato gli avvocati e mi hanno detto che era finito tutto c’è stato un abbraccio lungo con la mia famiglia e un pianto liberatorio. Vorrei mettere una pietra sopra a questa vicenda e guardare al futuro molto più serenamente”.
IL RICORDO DI GIANLUCA VIALLI – Infine un pensiero per l’amico Gianluca Vialli, che si è sempre preoccupato per lui: “È il mio angelo custode” fa sapere Padovano. “Mi manca molto. Tutte le volte che la mia famiglia veniva a trovarmi in carcere, lui chiamava il giorno dopo per chiedere a mia moglie come stavo. Non lo dimenticherò mai. Un brutto male ce lo ha portato via, ma le persone come lui non muoiono mai veramente”.
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