Una madre, una figlia e una nipote si parlano attraverso il tempo: “Ti senti stabile?”. I motivi del successo di “Anatomia di un suicidio” a teatro
Immaginate tre donne. Una madre, una figlia, una nipote. Tre vite intrecciate da fili invisibili che scivolano attraverso il tempo e lo spazio, legandole in una storia complessa e toccante. È questa l’essenza di “Anatomia di un suicidio”, il capolavoro drammaturgico di Alice Birch, che torna in scena in Italia grazie a Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. Lo spettacolo al Piccolo Teatro di Milano, premiato con cinque Premi Ubu nel 2023, rappresenta un’esplorazione audace della memoria, del trauma e della possibilità di rinascita.
La struttura narrativa di “Anatomia di un suicidio” è un’architettura unica: tre linee temporali si dispiegano contemporaneamente sul palco. Carol (Tania Garribba), Anna (Petra Valentini, che ha vinto anche il premio come Ubu come migliore attrice under35) e Bonnie (Federica Rosellini) vivono e si muovono in parallelo, le loro voci si intrecciano e si rispondono, come echi che rimbalzano in una casa che è al contempo rifugio e prigione.
Le scene dialogano in modo implicito, svelando gradualmente i legami profondi che uniscono le tre protagoniste. La componente maschile è quasi di accompagnamento, con funzione tutrice di osservazione e custodia. Dal tentativo di Carol di ricostruire una vita dopo un tentativo di suicidio, attraverso il tumulto interiore di Anna, fino alla conclusione quasi inevitabile raggiunta da Bonnie, ogni gesto e parola porta con sé il peso di un’eredità familiare in bilico tra amore e sofferenza. Un amo da pesca incastrato nella pelle, una festa di compleanno interrotta dal silenzio, un dialogo tra padre e figlia: questi dettagli si ripetono, come frammenti di un déjà-vu, creando un ritmo ipnotico che cattura lo spettatore.
Il fulcro dell’opera è una dicotomia tra vivere per qualcun altro e affondare, tra resistere e arrendersi. A tutte e tre le donne viene chiesto: “Ti senti stabile?” Una domanda semplice, ma che porta con sé il peso dell’intera narrazione. La stabilità diventa un miraggio, un ideale sfuggente in un mondo che sembra progettato per minare le fondamenta dell’esistenza. Attraverso questa lente, lo spettacolo interroga il pubblico su questioni universali: cosa significa vivere davvero? Quando si muore veramente? Può la maternità (e, specularmente, la sua negazione) essere un atto di ribellione a un gesto di creazione di sé stessi piuttosto che di continuazione?
La casa non è soltanto una cornice materiale, ma un organismo vivente che custodisce memorie e traumi, li elabora e li restituisce all’interlocutore di turno. Come un grande diaframma, la casa si trasforma, è natura e inconscio, oscillando tra l’intimità claustrofobica e l’apertura verso l’esterno, verso “gli alberi di prugna all’orizzonte”. L’opera con il suo ritmo fluido e non lineare, rompe gli schemi tradizionali della narrazione per costruire un’esperienza teatrale simultaneamente tripartita. Lo spettatore è chiamato a immergersi in un racconto corale, lasciandosi trasportare. “Anatomia di un suicidio” non offre risposte, ma invita a riflettere sulla fragilità e sulla resilienza dell’essere umano, sulla possibilità di trasformare il dolore in qualcosa di nuovo.
Con una regia che valorizza ogni sfumatura del testo, Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni, insieme ai diversi attori, offrono uno spettacolo che non solo mette in scena una storia, ma ispira diverse domande agli spettatori: come ci ricordano Carol, Anna e Bonnie, vivere non è mai soltanto una vicenda individuale, ma soprattutto esercizio di e – talvolta – emancipazione da un lessico famigliare.
(Foto di Masiar Pasquali)
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