Giornali comprati, usati e adesso svenduti
Ho letto l’articolo che Marco Damilano ha voluto dedicare sul Domani alla vendita di Repubblica e della Stampa. Giustamente, l’ex direttore dell’Espresso dice che Jaki Elkann si sta liberando del quotidiano torinese come si fa con un’auto usata che non serve più. E poi che il nipote di Gianni Agnelli, al quale il giudice per le indagini preliminari ha negato l’archiviazione, imponendo l’imputazione coatta per dichiarazione fraudolenta, ha messo in vendita il giornale fondato da Eugenio Scalfari come si fa con un vecchio armadio che nel tuo nuovo appartamento non ci sta. Alla fine, se di ciò che hai ereditato non sai che cosa farne, ti rivolgi a eBay, sperando che ci sia un amatore del reperto, magari uno straniero, che non capisce molto della paccottiglia che gli stai rifilando.
In effetti, il racconto di Damilano coincide con la realtà. Elkann prima ha venduto la Stampa ai figli di De Benedetti perché gli ricordava il vecchio quadro di un pittore démodé. Poi si è ripreso la Stampa e pure Repubblica, perché qualcuno gli deve aver detto che i quotidiani potevano coprirgli la ritirata dall’Italia, soprattutto con il sindacato. Giampaolo Pansa, che a Repubblica e all’Espresso era di casa, prima di fuggirne nauseato, anni fa scrisse un libro meraviglioso dedicato al mondo dell’editoria. Si intitolava Comprati e venduti. Se oggi potesse scriverne un altro sullo stesso tema, sono certo che lo chiamerebbe Comprati e usati. Già, perché la storia della carta stampata degli ultimi 40 anni è questa. Quando Carlo De Benedetti rilevò le azioni di Repubblica non lo fece certo perché ammirava le qualità giornalistiche del fondatore. Di lui, mentre eravamo seduti nel salotto di via Ciovassino a Milano, in una casa arredata con sfarzo dall’architetto Mongiardino, mi disse: «Quando mi regalò Incontro con Io (un saggio che uscì nel 1994, ndr), ho letto le prime 10 pagine e ho capito che dovevo cercarmi un nuovo direttore di Repubblica». E infatti lo sostituì un anno dopo, come si fa con un vecchio comò. Il sarcasmo acido, che non risparmia nessuno, neppure i suoi figli, è sempre stato un tratto distintivo dell’Ingegnere, il quale è pronto a dare lezioni a tutti salvo non impararne mai una: per questo ha distrutto ogni cosa che ha toccato, eccetto il suo conto in banca. De Benedetti i giornali li ha comprati e usati. Non lo ha fatto per amore della cultura, della libertà di stampa e della sinistra, come suole far credere agli allocconi. Lo ha fatto per fare soldi e difendersi dalle accuse di non avere mai avuto limiti quando si trattava di accumularli. Credete che Matteo Renzi, quando ogni settimana lo riceveva a Palazzo Chigi, dove una volta gli spifferò che avrebbe fatto la riforma della banche popolari offrendo all’Ingegnere un’altra occasione per arricchirsi, lo accogliesse perché reputava De Benedetti un simpatico compagno di merende? Ovviamente no, lo invitava perché era l’editore di Repubblica e allora i giornali facevano ancora comodo.
Damilano dice che la borghesia italiana ha perso l’anima, che ha scambiato l’influenza per gli influencer, l’innovazione per il marketing, il dibattito pubblico per una società di comunicazione. Può darsi. Ma soprattutto ha scambiato gli ideali con gli affari. Quando, nel 2007, nacque il Pd, l’Ingegnere, che era ancora in attività, disse di volere la prima tessera del partito di Walter Veltroni, detto anche Uolter Banaloni per le profonde e zuccherose argomentazioni. Insieme a De Benedetti, ai gazebo facevano la fila i banchieri, da Profumo a Modiano, con la generosa accondiscendenza di Nagel. Ecco, comprati e usati. I giornalisti di sinistra hanno ceduto al fascino dei danè, come a Milano chiamano i soldi, immaginando che imprenditori e finanzieri che si dichiaravano di sinistra avrebbero aperto per loro le stanze dei salotti buoni. Il risultato è che, trent’anni dopo, quegli stessi giornalisti si rendono conto che i compagni con yacht e conto in banca hanno svuotato il loro salotto quotidiano, riducendolo a un’inutile gazzetta, e che Jaki Elkann è pronto a vendere a chiunque lo sollevi dal problema. Il giornale-partito, che dettava la linea al Pci e ai poteri forti, ormai non c’è più. Quel giornale è morto e pure il partito – o meglio ciò che ne resta – non si sente tanto bene.
Il collega piange la scomparsa di «un sistema che teneva insieme la politica come pensiero e battaglia di idee, l’imprenditoria come coraggio, e l’intellettualità come inquietudine e non come compiacimento», rimproverando la sinistra, «attentissima a contendersi l’ultimo vice-caposervizio della Rai e totalmente assente mentre nell’informazione privata sparivano interi pezzi di territorio e di democrazia». Nel lungo articolo, tuttavia, tace due cose. La prima è il suo curriculum, da intellò organico di sinistra. Per cinque anni ha diretto L’Espresso, prima con De Benedetti e poi con Agnelli, e quando questi lo hanno messo in vendita, abbandonandolo nelle mani di un petroliere, appena lasciato l’incarico nello storico settimanale, gli è stata donata una trasmissione Rai, perché la Casta giornalistica della sinistra non lascia mai nessuno per strada. La seconda riguarda il giornale su cui ha scritto della fine di Repubblica, ossia il Domani. A finanziarlo è Carlo De Benedetti, che ha perso tutto o quasi il suo gruppo, ma non la passione per influenzare la politica. In fondo lui è stato il primo grande influencer di cui Damilano si lamenta. È con lui che comincia tutto, a partire dal disastro di Repubblica. Ed è sempre con lui e con i suoi sferzanti giudizi che si conclude il ciclo.