Quando il giornalismo ha iniziato a parlare di cose che non sono notizie
La premessa doverosa è che quanto accaduto a Giovanna Pedretti, la titolare della pizzeria Le Vignole di Sant’Angelo Lodigiano, è ancora tutto da stabilire. Le indagini faranno il loro corso, ma sicuramente la vicenda delle ultime ore e il ritrovamento del suo cadavere nel fiume Lambro rappresentano una coincidenza piuttosto inquietante. Saranno le indagini a fare il loro corso. In ogni caso, la valutazione che si può fare è di tipo mass-mediologico. Abbiamo provato a sintetizzare in questo primo articolo la vicenda: la donna aveva pubblicato sui social una presunta recensione al locale, in cui si lamentava la presenza di gay e di disabili all’interno; successivamente, la stessa donna aveva dato una risposta al presunto avventore, rimproverandolo per le parole utilizzate. Poi, erano stati sollevati dubbi sull’autenticità della recensione e il commento dei mass-media – che avevano raccontato la storia della risposta alla recensione negativa – si era completamente ribaltato. Nel giro di 48 ore, poi, il ritrovamento del cadavere. C’è una domanda da porsi, in maniera seria e critica: per quale motivo i giornali hanno iniziato a trattare questa storia? C’erano elementi per far finire questa vicenda sui giornali sin dall’inizio, ovvero da quando la titolare della pizzeria aveva pubblicato la presunta recensione negativa sui social network?
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Criteri notiziabilità su Giovanna Pedretti: c’erano i presupposti per iniziare a parlare pubblicamente di questa vicenda?
Occorre, per un attimo, fare riferimento a un testo fondamentale per l’analisi mass-mediologica. Stiamo parlando di Teoria della Comunicazione di massa, di Mauro Wolf. È vero che si tratta di un libro pubblicato nel 2000 (con un certo anticipo rispetto alla pervasiva distribuzione dei social network e alle modalità con cui abitualmente utilizziamo le piattaforme come Facebook, Twitter, Instagram, TikTok), ma è pur vero che parte da un principio che può essere considerato pressoché universale. Ovvero, quando un fatto può essere considerato una notizia.
In sintesi, si cerca di far capire che a determinare la validità di una notizia sia l’importanza del fatto e la sua valenza per l’opinione pubblica. Stiamo parlando, chiaramente, di un episodio che si è verificato all’interno di un paese di 13mila abitanti, all’interno di una pizzeria con pochissimi coperti. Non si tratta senz’altro di un locale famoso o di un personaggio pubblico coinvolto, nonostante le iniziative benefiche che la pizzeria aveva già sviluppato a favore del territorio. C’è stata quantomeno una sproporzione tra il post sui social network della titolare della pizzeria e il numero di testate giornalistiche che ha avuto modo di trattare l’argomento.
Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, c’è stata sempre una maggiore tendenza nel dare spazio, sui giornali, a post e contenuti che sono diventati virali sui social network. Il principio che porta le testate a occuparsi di questi contenuti è legato a una sovrapposizione tra il pubblico dei social network stessi e quello delle testate online (che, in passato più che oggi in realtà, utilizzavano proprio i social network come vetrina per i propri contenuti, ottenendo un vasto ritorno in termini di visualizzazioni). Ecco, dunque, il peccato originale.
La ricerca del click a tutti i costi ha abbassato notevolmente il valore del principio di notiziabilità di un fatto. Ha portato sempre di più a fare in modo che le redazioni ottenessero alta resa a basso effort: un articolo basato su un post, solitamente, si scrive davvero in poco tempo e raggiunge un numero molto elevato di persone. Il problema interviene nel momento in cui il basso effort determina errori di comunicazione, problemi nella proposta dell’articolo, addirittura falsa corrispondenza tra il fatto in sé e come viene raccontato da una sola delle parti in causa (spesso, senza contesto e senza una risposta della controparte).
Occorrerebbe, dunque, rivedere i principi di notiziabilità per quanto riguarda i fatti emersi da contenuti pubblicati esclusivamente sui social network: basterebbe, del resto, tenere separati e distinti i due piani. I social network dovrebbero continuare a fare i social network, senza alcuna pretesa informativa. E i giornali, dal canto loro, dovrebbero concentrarsi sul loro ruolo di informazione relativo a fatti davvero importanti, a questioni di pubblico interesse. Non a far diventare di pubblico interesse post sui social.
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