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Gandini: «Il basket italiano sta bene»



«Perché Torino? Perché sono bravi». Abituato ai giri di parole del mondo del calcio da cui proviene Umberto Gandini, presidente della Lega Basket, impiega tre parole per spiegare la scelta del capoluogo piemontese come sede delle Final Eight di Coppa Italia al via oggi.

«A partire dalla Regione, dal Comune e dalla Camera di Commercio con cui ci sono sinergie ottimali, hanno scelto avendo degli impianti eredità delle Olimpiadi 2006, la strada dello sport perché non ci sono molte altre arene di questo livello in Italia. L’esperienza ATP Finale gli ha fatto capire le potenzialità a 360° dello sport; poi siamo arrivati noi…».

Come sta il basket italiano?

«Direi che sta bene. Sicuramente a livello di vertice sta bene, lo stesso si può dire della A2 che sta attraversando l’ultimo anno della sua riforma con tante squadre in lotta per salire alla massima categoria. La Nazionale poi è tornata ad essere considerata tra le protagoniste. Ha un percorso difficile per il pass olimpico ma in passato ci ha già fatto vedere di potercela fare. Nel complesso lo stato è positivo; abbiamo numeri che lo dimostrano: +11% di presenze ai palazzetti nel solo girone d’andata e per le Final Eight siamo sullo stesso livello di crescita certi di superare le 36 mila presenze del 2023 (siamo già a 42 mila biglietti venduti ndr) , anche grazie al giorno in più di gara con l’apertura alla finale femminile. È bello notare che rispetto al passato non molto lontano non ci siano piazze in sofferenza dal punto di vista finanziario. Guardi ad esempio il caso di Pistoia; nell’anno del covid avevano scelto di retrocedere volontariamente per evitare rischi ed oggi la troviamo alle Final Eight».

Non vede uno sbilancio nella A1 tra la coppia Olimpia Milano e Virtus Bologna, con i loro super budget, ed il resto delle squadre?

«Dal punto di vista economico lo sbilancio è evidente ma è quello che accade in tutti gli sport, dal basket greco, turco e quello spagnolo ma anche nel calcio sappiamo che accade lo stesso. Va detto che i budget hanno un peso sul campo ma non sempre vincono. Nel nostro caso io vedo i grandi investimenti di Armani e Zanetti come degli stimoli per tutte le altre società ad essere più forti tecnicamente ed eventuali altri imprenditori».

È evidente che le società con budget più ridotti hanno dato grande spazio ai giocatori italiani, cosa che nel calcio accade meno…

«Noi abbiamo la famosa norma che prevede di avere 5 giocatori di formazione (non passaporto ndr) italiana, regola voluta dalla Fiba dopo la Legge Bosman del calcio, ma anche le stesso Milano e Bologna hanno dato grandi spazi agli italiani: Flaccadori, Bortolami, Pajola, Belinelli. Ma in generale tutti stanno usando molto i nostri giovani. Va però detto che l’obbligo di avere giocatori di una certa nazionalità o formazione scombussola i parametri economici per cui alcune volte è più conveniente investire poche decine di migliaia di dollari su uno stranieri che 5 volte tanto per un italiano o di nostra formazione».

Lei arriva dal mondo del calcio che sta in piedi per lo più grazie ai diritti tv. Nel basket invece sono ben poca cosa e le società devono trovare altre strade economiche per sopravvivere. Cosa si può fare per migliorare la quota diritti tv per il basket e cosa la pallacanestro può insegnare al calcio?

«Mi sono occupato prima di tv e poi di calcio, negli anni ’90. Ho seguite la nascita della prima pay tv e la prima gara dei diritti tv per il calcio. Da quando sono alla Lega Basket ho fatto due bandi, come prevede la Legge Melandri. Nel primo, eravamo in pieno Covid, siamo riusciti a confermare l’esistenze; quello successivo di fatto ha raddoppiato il valore del precedente. Purtroppo però la cifra non è nel complesso così grande da portare benefici per tutti anche se raddoppiata. Per arrivare a questo ci vorranno vent’anni, almeno. Nel calcio abbiamo 70-80% di ricavi dai diritti tv, nel basket siamo al 10%. Solo il calcio in Italia può vivere quindi di diritti tv, e non nemmeno fino a quando, ma tutto il resto deve pensare ad altro. Rimangono quindi fondamentali il mecenatismo, ma contano molto anche i ricavi commerciali che però si scontrano con il gravissimo problema degli impianti per dimensione e per «fruizione». Sono impianti che regalano meno opportunità di incasso rispetto ad Arene di altri paesi, penalizzando ancora più le nostre squadre. Spero che in futuro, medio lungo, l’incremento di spettatori possa portare i comuni ed i privati a collaborare per pensare alla costruzione di nuovi palazzetti: sta succedendo a Napoli, il nuovo progetto a Brindisi, c’è Venezia, Tortona, Cantù e Varese che vuole riqualificare l’attuale struttura, c’è la nuova arena alla fiera di Bologna… certo, l’arrivo di un nuovo competitor per lo streaming potrebbe aiutare anche se bisogna ringraziare DAZN per il lavoro fatto sul nostro sport reso disponibile a tutti i suoi abbonati…».

Tornerà mai l’epoca delle grandi società degli anni ’80 e ’90: Treviso, Cantù, Roma che per certi versi provava a competere contro il mono culturalismo del calcio in Italia?

«Voglio pensare di si, che si possa tornare a quei tempi anche se la realtà dice che il mondo è totalmente cambiato rendendo certe esperienze forse irripetibili. La base resta la passione, allargando la base sulle nuove generazioni. Il tempo passa per tifosi ed appassionati; cerchiamo quindi di parlare ai ragazzi, cambiando narrativa. Il basket piace tanto ai giovani, ha contaminazioni con la musica, il mondo delle sneakers età età. Dobbiamo però competere con la corazzata della Nba, che monopolizza nel mondo, bravi loro, tutto quello che riguarda la pallacanestro ma vediamo sull’avvicinare i più giovani già dei buoni risultati….»

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