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La classifica musicale si fa in due. E non è più quella di prima

Da un lato si conteggiano vinili, cd e musicassette, dall’altro i brani in streaming. Una volta, però, avevano un valore solo i clic derivanti da abbonamenti pay. Ora valgono anche gli ascolti da piattaforme free (dove tra un brano e l’altro c’è la pubblicità). Una rivoluzione epocale.

Non c’è nulla di uguale a prima nelle classifiche musicali. A cominciare da una novità epocale: andare al primo posto non conta quasi nulla, anzi per un big o una nuova star che impazza sui social quel numero uno accanto al titolo del suo album o del suo singolo è un fatto quasi scontato nei giorni immediatamente successivi alla pubblicazione. Oggi, la parola magica è «certificazione». «Ovvero quanti dischi d’oro o di platino si è aggiudicato quel brano o quel disco nella sua interezza» spiega a Panorama Enzo Mazza, ceo della Federazione dell’industria musicale italiana (Fimi). «Le certificazioni hanno un impatto decisivo sulla visibilità dell’artista rispetto ai brand con la conseguente chance di essere scelto come testimonial. Tanti dischi di platino sono una spinta fenomenale perché una canzone venga utilizzata per uno spot o come colonna sonora in una serie Tv. Per le singole canzoni, centomila copie vendute corrispondono a un disco di platino, cinquantamila a un disco d’oro. Per gli album e le compilation 25 mila copie valgono il disco d’oro e 50 mila il disco di platino. Nel contesto della musica «urban», quella che piace ai più giovani, le certificazioni sono addirittura entrate nei testi delle canzoni sotto forma di dissing («presa in giro», ndr) con strofe tipo «Bravo, tu sei andato al primo posto, ma io sono qui con i miei sette dischi di platino» conclude.

Cose di questi tempi, figlie di una rivoluzione senza precedenti nelle modalità di consumo della musica. Il pubblico è segmentato in maniera netta e anche definitiva come testimoniano per l’appunto le classifiche. Tra quelle realizzate da Fimi ce n’è una, appena inaugurata, che include esclusivamente i dati di vendita di cd, vinili e musicassette (sembra incredibile, ma anche questo formato vetusto ha una sua nicchia di mercato), che sono l’oggetto del desiderio di chi è ancora disposto a spendere tra venti o trenta euro per acquistare il disco di un artista. Questo tipo di consumo, decisamente più dispendioso rispetto agli abbonamenti streaming, occupa ancora il venti per cento del business musicale in Italia. Nei primi nove mesi del 2023 le vendite di cd sono aumentate dell’8,37 per cento con un fatturato complessivo di circa 15 milioni di euro. Ancora meglio il risultato del vinile: più 17,65 per cento con un fatturato di 23 milioni. Vanno fortissimo vecchi leoni come Pink Floyd e Rolling Stones ma anche Harry Styles a 33 giri funziona alla grande. Indicativa, in questo comparto, la scelta estrema di Francesco Guccini che ha debuttato al secondo posto in classifica con Canzoni da osteria, un album che si poteva solo acquistare in formato fisico perché volutamente assente dalle piattaforme streaming.

Tutt’altra storia è invece quella delle classifiche che vengono compilate trasformando in copie vendute i miliardi di ascolti in streaming. In questo campo la novità più rilevante, da gennaio 2024, è che anche i clic effettuati senza avere un abbonamento premium (a pagamento) contribuiscono alla formazione della classifica. Non è un dettaglio perché stiamo parlando di numeri a nove zeri. E qui entrano in gioco nuovi criteri di rilevazione e un nuovo linguaggio che definiscono la popolarità degli artisti. Vediamo come. La metodologia utilizzata per l’inserimento degli ascolti in streaming nelle classifiche si chiama Economic Weighting Model e prevede che il contributo alle chart dello streaming sia commisurato al valore economico generato dai due formati principali di streaming, ovvero quello «ad supported» e «free» (dove si ascolta la pubblicità prima dei brani perché non si paga l’abbonamento) e quello premium che prevede invece un rata mensile. Tutto questo si traduce poi in numeri, per cui una copia venduta richiede 180 ascolti in streaming premium di quel singolo brano, mentre, sempre per conteggiare una copia venduta, occorrono 1.260 ascolti in streaming free (ad supported). «Una distinzione essenziale» spiega il Presidente della Fimi «perché la metà del consumo musicale in Italia avviene attraverso il canale free che include anche l’utilizzo senza abbonamento delle piattaforme video come YouTube». Per prevenire manipolazioni viene poi conteggiato un numero massimo di ascolti per utente secondo il limite giornaliero stabilito dalle diverse piattaforme streaming.

E per fare il calcolo di quanti album vengono venduti attraverso lo streaming, le difficoltà si moltiplicano. Si sommano gli ascolti dei brani associati a quel disco a condizione che i clic siano equa- mente distribuiti tra tutte le canzoni di quell’album senza uno squilibrio a favore di un singolo brano. È la fotografia della rivoluzione epocale di questo comparto del mercato dell’intrattenimento, mutazioni che fanno sembrare la mitica hit parade di Lelio Luttazzi un reperto archeologico di un’era in cui i singoli di maggior successo vendevano un milione di copie. Oggi, i Måneskin, con le loro canzoni, hanno superato i sei miliardi di ascolti in streaming nel mondo.

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