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Agricoltura: la guerra dei campi



Trasformare l’agricoltura in uno dei tanti settori industriali, con perdita di qualità, identità, posti di lavoro. C’è questo dietro la protesta dei coltivatori. Uno scontro in cui i giganti globali dell’agro-business esercitano pressioni. Con prossime, inquietanti prospettive per i consumatori.

Nel risiko dei campi i trattori che hanno bloccato la Germania, assediato Bruxelles, paralizzato la Francia e l’Olanda e ora in Italia ruggiscono nelle strade hanno attaccato per difendersi. La posta in gioco è colossale: l’agricoltura vale cinque trilioni e mezzo di dollari, il 5 per cento del Pil mondiale. Considerando la trasformazione il valore sale a 10 trilioni, 10 miliardi di miliardi di dollari. Ma è forse il settore produttivo dove gli squilibri sono maggiori, dove la ricchezza è più concentrata e dove la globalizzazione è più feroce. L’urlo dei trattori è contro tutto questo e dietro ogni singola rivendicazione ci sono ragioni profonde che però la cronaca ha sin qui liquidato come richiesta di più sussidi, contestazione delle politiche green. Sentono, dato l’impoverimento costante, di correre il rischio di trasformarsi davvero in servi della gleba. In vent’anni nei nostri campi è successo questo: nel 2022 erano attive in Italia 712.692 imprese agricole, nel 2000 erano 2.384.239. Ne abbiamo perse sette su 10. Il cambio generazionale è in stallo: gli ultracinquantenni in agricoltura sono il 70 per cento degli imprenditori, quelli sotto i trenta sono appena il 4 per cento. Si è persa circa metà della manodopera: a lavorare i campi nel 2022 erano 720 mila italiani, di cui circa la metà salariati, ai quali si aggiungono circa 160 mila lavoratori stranieri. E in ultimo, ecco l’impoverimento, il valore fondiario, al netto dell’inflazione, ha perso il 20 per cento in vent’anni. Coltiviamo meno di 12,8 milioni di ettari.

In un ventennio sono spariti due metri quadri di campo al secondo per una perdita di oltre 400 mila tonnellate di prodotti. Il che spiega - come ha censito il centro studi Divulga - perché il Paese che ha la più alta redditività agricola (38 miliardi di euro) e che trae dall’agroalimentare il 20 per cento del Pil (circa 390 miliardi), importi il 64 per cento del grano tenero, il 44 di quello necessario per la pasta, il 16 per cento del latte, metà della carne bovina e il 38 per cento di quella di maiale, il 53 per cento della soia e il 27 di mais per gli animali, il 60 per cento dell’olio di oliva che consuma e più dell’80 per cento del pesce.

Di certo la Pac, Politica agricola comunitaria che è stata l’atto costitutivo dell’Unione europea, passata da oltre il 60 per cento del bilancio comunitario a meno del 25 attuale, non aiuta. Lo ha rilevato, e non da oggi, il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti: «I temi della produttività e della competitività delle imprese agricole devono diventare centrali nel dibattito europeo. Le risorse destinate agli agricoltori incidono per lo 0,4 per cento del Pil dei 27 Stati, dunque sono minime e questo sta mettendo a rischio la capacità produttiva del sistema. Occorre mettere gli imprenditori agricoli italiani ed europei nelle condizioni di produrre di più e meglio e di essere competitivi nel mercato globale». Già. Siamo però sicuri che il Vecchio continente voglia essere competitivo nel mercato globale? Se così è, perché Ursula von der Leyen ha preso atto solo dopo la protesta dei trattori che le misure ambientali previste dalla strategia «Farm to Fork» per la sostenibilità ambientale erano incompatibili con la sopravvivenza delle imprese? È bastata la mucca Ercolina che sfila in piazza Duomo a Milano e a Sanremo a far rientrare l’allarme ambientale e a cancellare la misura sui pesticidi? Probabilmente no.

Perché l’Europa si era spinta così avanti nel divieto della chimica in campo rischiando che le sue misure fossero un boomerang, come sostiene da tempo il professor Felice Adinolfi, direttore scientifico del centro Divulga? Così ecco gli accordi Ceta con il Canada, che esporta in Europa tonnellate di grano trattate con il glifosato, l’erbicida che si impiega per essiccare i semi (pratica vietata in Europa); ecco gli accordi Mercosur che danno via libera alle merci brasiliane e argentine (il Brasile con 9 miliardi è il primo fornitore di semi oleosi e di carne), Paesi dove si usano 70 prodotti chimici vietati da noi; ecco gli accordi con Marocco, Tunisia, Turchia, che esportano frutta, olio, ortaggi senza dazi per ragioni diplomatiche; ecco il pomodoro cinese che invade i nostri mercati (aumento del 36 per cento, 1,1 milioni di tonnellate solo di concentrato di pomodoro).

Una risposta meno epidermica c’è. Il mercato degli Ogm che da noi è in stallo. Per convincere i contadini, basta vietar loro di curare le piante per poi proporre gli Ogm prodotti dalle multinazionali Monsanto (cioè Bayer), DuPont, Syngenta (cioè China Chemical), Basf, ma soprattutto da «Farmer Bill», che il nuovo soprannome di Bill Gates. Queste big controllano circa il 70 per cento del mercato mondiale delle sementi, ma sono anche tra i principali produttori di diserbanti indispensabili per far crescere bene soia, mais e grano geneticamente modificati. Quando l’Italia ha proposto l’adozione delle Tea - ovvero le piante il cui Dna viene sì modificato, ma senza l’inserimento di sequenze aliene - l’allora vicepresidente della Commissione Frans Timmermans disse che non le avrebbe mai prese in considerazione se prima l’Italia non diceva sì al Nutriscore (l’etichetta a semaforo sui valori nutrizionali) e alla carne sintetica.

Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha dato il via libera agli Ngt (sono le piante geneticamente modificate Tea) e il Commissario all’agricoltura Janusz Wojciechowski non si è opposto. Cosa è cambiato? Nella sua Polonia la protesta contro il grano ucraino che arriva sottocosto deve averlo convinto che l’Europa sull’agricoltura deve cambiare rotta. Esiste un organismo internazionale che si chiama Eat-Lancet Commission (Elc). Ne fanno parte una ventina di nazioni e gruppi di Paesi, e tra le prime ad aderire è stata l’Unione europea. La Elc vuole imporre una «dieta mondiale». Scrive Johan Rockstrom, ricercatore svedese, uno dei due responsabili del think tank: «La produzione alimentare globale minaccia la stabilità del clima e la resilienza dell’ecosistema. Rappresenta il principale fattore di degrado ambientale e violazione dei confini planetari. Urge una radicale trasformazione del sistema alimentare globale». «Trasformazione» che corrisponde appunto a una dieta mondiale. Com’è prassi Elc - a cui dà ascolto l’Onu, la Conferenza di Parigi, sommamente la Ue che ha scritto la strategia «Farm to Fork» sotto dettatura di questo organismo - dice che tutto ciò è fatto per prevenire le malattie per salvare il pianeta e i suoi abitanti. C’è un passaggio significativo nel rapporto: «Applicare questo modello può garantire entro il 2050 diete sane per circa 10 miliardi di persone. Tuttavia, anche leggeri aumenti nel consumo di carne rossa o di latticini renderebbero questo obiettivo difficile se non impossibile da raggiungere».

C’è da domandarsi perché ci sia tanto interesse per la carne e per il latte coltivati. La Eat-Lancet Coommission è finanziata dalla Stordale Faundation, il più potente gruppo di produzione di energie rinnovabili. Come scrive sul suo sito: «È una forza trainante nel collegare le questioni climatiche, sanitarie e di sostenibilità per trasformare il sistema alimentare globale». Il World Business Council for Sustainable Development che riunisce 250 tra le più importanti imprese del mondo comprese tutte le multinazionali dell’alimentare e dell’energia ha elaborato dieci «wildcard disruption» (sono eventi che possono verificarsi entro il 2030) e la nona recita: «La carne bovina prodotta in laboratorio implicherà grandi cambiamenti per l’industria agricola. Vasti appezzamenti di terreno potrebbero essere disponibili per altri utilizzi». E gli «utilizzi» corrispondono a sfrattare i contadini per piazzare pannelli fotovoltaici, coltivare piante «no food» per produrre energia. Basta a spiegare perché il più grande produttore di carne, la brasiliana JBS, stia investendo milioni di dollari nei progetti di sintesi, così come sta facendo la Cargill, una delle quattro «sorelle» con Adams, Bungie e Dreyfus, che si spartiscono l’80 per cento del mercato mondiale dei cereali, in questo comparto che entro cinque anni dovrebbe arrivare a 30 miliardi di dollari.

Il «guru» anche di questo settore è Bill Gates, intimo di Ursula von der Leyen, che in America possiede oltre 130 mila ettari di terra. Se ne serve per coltivare Ogm, per incentivare i progetti di carne sintetica, per studiare piante che possano veicolare i vaccini e - come ha rivelato lui stesso - «per rendere queste aziende più produttive e sviluppare più posti di lavoro anche attraverso l’ingegneria genetica». La Bill&Melinda Gates Fundation è molto attiva in Africa. La Ong Global Justice Now accusa le pratiche imposte agli africani di essere «improntate al globalismo aziendale». È evidente che interventi come quello del Piano Mattei annunciato da Giorgia Meloni, che ha al centro una collaborazione tra i sistemi agricoli di Italia e Stati africani, rompe questo «monopolio». Mentre Gates si mette alla testa di tale agricoltura globalizzata, Mark Zuckerberg ha annunciato un investimento di sei milioni di dollari: «Ho iniziato ad allevare bestiame al Ko’olau Ranch a Kauai (alle isole Hawaii, ndr) e il mio obiettivo è produrre carne della più alta qualità al mondo». Per i «re di denari» l’agricoltura è davvero un risiko. Il rapporto Food Barons 22, stilato da Action Group, evidenzia che il predominio di un piccolo numero di grandi aziende sulla catena alimentare globale è in aumento, aiutato dal crescente utilizzo di «big data» e intelligenza artificiale. «Questa concentrazione» spiega il rapporto «porta prezzi elevati dei generi alimentari» mentre «la piattaforma digitale “Field View” di Bayer estrae 87,5 miliardi di dati da 78,2 milioni di ettari in 23 Paesi e li incanala nel cloud di Microsoft e Amazon per generare nuove strategie.

Questi sistemi spostano i lavoratori agricoli, ne erodono diritti e manipolano i consumatori». Così i coltivatori in Europa, e in Italia, non hanno più potere contrattuale: carne pagata alla stalla 3,75 euro al chilo al supermercato costa 18 euro, un chilo di farina a 50 centesimi produce pane poi venduto a 6 euro, arance per cui si riconoscono 45 centesimi al chilo vanno sul mercato a 1,30 euro, il latte passa da 50 centesimi a 1,50 euro al litro. Le proteste dei trattori nascono da tutto questo. Così vigne e orti si trasformano in campi di battaglia. Per la sopravvivenza.

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