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Camossi: «Il limite del confine a Gorizia mi ha dato un’altra mentalità»

GORIZIA. Nato a Gorizia il 6 gennaio 1974, Paolo Camossi è uno dei grandi nomi dell’atletica leggera italiana. Prima come atleta, triplista e saltatore in lungo, oggi come tecnico. Tra i successi il titolo mondiale indoor nel salto triplo a Lisbona, nel 2001, l’argento ai Giochi mondiali militari di Zagabria nel 1999, il bronzo agli Europei indoor di Gand 2000 e l’oro ai Giochi del Mediterraneo di Bari nel 1997. Nove volte campione italiano del triplo, è stato finalista alle Olimpiadi di Sydney 2000. Da allenatore ha accompagnato la crescita di Marcell Jacobs fino all’impresa per l’Italia del doppio oro olimpico nei 100 e nella 4x100 a Tokyo.

Paolo Camossi, lei è uomo di limiti da superare e superati, fossero centimetri da aggiungere a un salto o decimi di secondo da limare. E un limite è pure un confine. Cos’è per lei?

Per me un limite ha sempre rappresentato un’opportunità, qualcosa che va spostato e superato, un’occasione di crescita. Vale per tutto nella vita, quando si capisce che si ha sbagliato e ci si può migliorare, o quando ogni giorno si cerca di crescere. Ecco, pensando al limite nel senso di confine, ci si rende conto che magari togliendolo si può vivere meglio tutti insieme.

E dal punto di vista sportivo, qual è stato il limite, il confine superato per lei più importante?

Posso dire che non è stato in realtà prettamente sportivo, un risultato agonistico o un record migliorato. È stato quando sono riuscito a cambiare il modo di approcciarmi allo sport e alla vita, con maggiore equilibrio e la capacità di gestire meglio le cose quando non vanno come vorresti. Rialzarsi, reinventarsi, osservare quanto c’è di buono anche nei momenti difficili. Mi è successo quando da atleta sono diventato allenatore, e ho avvertito la responsabilità di un sogno condiviso, di non ragionare più solo per me. Magari avessi avuto la stessa visione anche prima.

Ne ha invece uno ancora da varcare, di confine personale?

Forse la prossima frontiera che vorrei attraversare è quella del mio sport. Mi piacerebbe poter un giorno fare delle nuove esperienze professionali al di fuori dell’atletica leggera, per misurarmi con un mondo diverso e trarne ulteriore occasione di crescita.

Veniamo invece al confine inteso in senso proprio, letterale. Durante la sua carriera ne avrà attraversati a decine...

Per lavoro ho toccato un po’ tutti i continenti, e ogni volta le sensazioni di un viaggio o di una frontiera nuova attraversata sono particolari. Ricordo ad esempio quando capitava di arrivare in Paesi dove la situazione era meno tranquilla e serena, dove si vedevano volti tesi e pochi sorrisi, e mi sentivo un po’ a disagio. Pensavo a quanto fossi fortunato a venire da luoghi dove questo non accadeva, e oggi mi rendo conto che abbattere i confini vuol dire riuscire a eliminare anche queste differenze.

Che ricordi ha invece del confine tra Italia e Jugoslavia, nell’infanzia?

Io ho lasciato Gorizia che ero adolescente, ma vi tornavo spesso per le vacanze. Ricordo che andavo a passeggiare con mio nonno lungo il confine, e lui mi mostrava le ronde alla frontiera, così come ricordo la rete e il muretto in piazza Transalpina. Poi io stavo a Savogna d’Isonzo, era normale attraversare il confine con la prepusnica.

E come atleta?

Nella mia carriera mi sono allenato moltissimo in Slovenia, specie d’inverno nell’impianto indoor di Šempeter. Ricordo l’approccio estremamente disciplinato e focalizzato che avevano oltreconfine, improntato al raggiungimento del massimo risultato. E, soprattutto, il riconoscimento del merito: si avvertiva la bella responsabilità di essere bravi.

Come persona e come atleta cosa le ha dato, o cosa le ha eventualmente tolto, essere un uomo di frontiera?

Penso sia stato un vantaggio enorme. Mi ha dato una mentalità più aperta, sentire dentro di me culture diverse, sportive e non, mi ha regalato un approccio differente. Senza contare che spesso nello sport sono proprio i ragazzi e le ragazze che fondono in sé caratteristiche fisiche e mentali di popoli diversi ad andare più forte degli altri. Qualcosa vorrà senz’altro dire.

Oggi che effetto le fa non vederlo più, quel confine?

Devo dire che è diventata ormai una normalità, non ci faccio più caso perché è passato davvero molto tempo. E aggiungo per fortuna, perché è bello e giusto così, ci si rende conto di quanto la vita sia più semplice e di quanto Gorizia e Nova Gorica siano ancor più vicine.

Le due Gorizie segnano un momento storico. Lo sport però spesso ha anticipato il superamento delle divisioni...

Certo. Lo sport è un linguaggio universale che prova ad eliminare differenze e ingiustizie. Immaginiamo una partenza dei 100 metri: in ogni corsia corrono atleti di tutte le nazioni, senza distinzioni di colore della pelle o provenienza, combattono ad armi pari per vincere ma rispettandosi perché uniti da uno stile di vita e dai sacrifici quotidiani per migliorarsi. Quanto può insegnare tutto questo? Lo sport permette di arrivare dove non arriva la politica.

E a proposito di Go!2025, vedremo in città anche Paolo Camossi, magari sulla rinnovata pista del Fabretto?

Lo spero, e se mi inviteranno verrò davvero volentieri. Provavo un grande dispiacere a vedere le condizioni di quella pista dove in tanti di noi sono diventati grandi e anche lo stesso Marcell Jacobs ha cambiato marcia. Sarebbe bello che la Capitale restituisse splendore anche a quell’impianto.

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