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Il libro. Non ci sono più i comunisti di una volta: controstoria (liberale) di un’involuzione

Sallusti

In “Umano, troppo umano”, Nietzsche ha scritto “alle persone spiritose, per guadagnarle a una tesi, bisogna talvolta presentare quest’ultima solo nella forma di un mostruoso paradosso”. E a un paradosso, anzi, proprio a un mostruoso paradosso è dedicato l’ultimo libro di Giovanni Sallusti, ‘Mi mancano i vecchi comunisti’, edito da Liberilibri. Opportuno sottotitolo, ‘Confessione inaudita […]

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Sallusti

In “Umano, troppo umano”, Nietzsche ha scritto “alle persone spiritose, per guadagnarle a una tesi, bisogna talvolta presentare quest’ultima solo nella forma di un mostruoso paradosso”. E a un paradosso, anzi, proprio a un mostruoso paradosso è dedicato l’ultimo libro di Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti’, edito da Liberilibri. Opportuno sottotitolo, ‘Confessione inaudita di un vecchio libertario’. E se in ogni confessione alberga, come rilevava Prezzolini, lo stile di una vera filosofia e forse, cioranianamente, il peso di un anatema, si comprende come e quanto il libro di Sallusti non sia solo una mera provocazione. È piuttosto un regolamento di conti, praticato mediante l’antichissima arte della trasformazione alchemica dei veleni in farmaco.

In questo caso, il veleno è il comunismo. Un comunismo-veleno stratificatosi geologicamente nelle ere della sua riproducibilità oleografica e trasmutato in una forma iridescente, fucsia, woke, ma non per questo meno violenta, brutale, cinica del genitore ideologico. Anzi. Il figlio ibrido e in certa misura degenere è assai più infido e pericoloso. D’altronde, come scrive Giuliano Ferrara nella prefazione “chi è stato comunista può solo tradire il suo passato, rinnegare i suoi ideali della sua gioventù e farlo tenendo conto, come suggerisce Sallusti, del fatto che il comunismo è stato violento e radicalmente nemico della pace liberale tra gli uomini”. Ma, prosegue Ferrara, e qui sta il dispositivo di produzione culturale che alimenta il testo di Sallusti, quella ideologia strutturata nella sua forma intellettuale, partitica e anche totalitaria ha offerto una sua dinamica di pensiero, forse nel modo sbagliato ma ha forgiato intellettualmente gli individui nel loro rapporto con il mondo.

E nella inaudita confessione che punteggia l’introduzione, Sallusti svela il sofferto arcano di questo senso di nostalgia, di assenza e di mancanza; quei vecchi arnesi nemici della libertà, assassini del mercato e del concetto stesso di individuo, possedevano almeno una loro conformazione ontologica nel rapportarsi al mondo delle idee e della società.  Qualcosa di tremendamente altro rispetto l’avanzante, oleografica melassa della sinistra woke, che a ben vedere sarebbe difficile pure rubricare Nuova Sinistra visto che la Nuova Sinistra storica, pur turpe, ebbe certo altro profilo di vetta rispetto i guerriglieri del politicamente corretto, i pasdaran del gender e della battaglia per ottenere i cessi non-binari.

Certo, nomina sunt consequentia rerum, e non c’è dubbio che molte delle trovate escogitate dai menzionati artiglieri della jihad con septum e capelli viola siano emerse dalle acque fonde di quel ruscelletto melmoso, producendo nelle loro linee guida di ortodossia politicamente corretta i nomi derivati da ciò che è stato prodotto dalla Nuova Sinistra decostruzionista, post-strutturalista e in perenne hangover da biopolitica. Perché si comincia sempre a fare aperitivo coi gargarismi a base di Foucault e poi ci si ritrova sbronzi abbracciati a Judith Butler, madrina santificata delle teorie di genere, che solfeggia la beatificazione di Hamas come forza progressista della resistenza sociale globale.

Nel suo ricostruire i lineamenti di faglia del tracollo ideologico e concettuale della sinistra, che è prima di tutto anche tracollo del pensiero occidentale, Sallusti ricorda come uno dei testi sacri stessi del marxismo, il “Manifesto del Partito Comunista”, fosse nei fatti e senza neanche tanto mentite spoglie un peana del capitalismo e della forza trascinante e fascinatrice del dominio borghese. Con accenti che non sarebbero dispiaciuti al Mises de “L’azione umana”, il dinamico duo Engels-Marx è costretto a mettere a verbale quanto l’inventiva borghese, il suo dinamismo creativo e produttivistico, abbia elevato lo standard sociale e civile dell’intero mondo occidentale.

A differenza dei marxisti ortodossi, i comunisti woke, vagheggianti primitivismi decrescisti storicamente inesistenti, vagolano per le pendici di un metafisico e ottuso ‘altrove’: non hanno un modello di società, di visione del mondo e mancano del tutto di qualunque forma di analisi organica di ciò che li circonda. Paradosso tra i paradossi, gli analfabeti della complessità sono coloro i quali producono in continuazione il rumore di fondo della complessità, agitata e brandita come vessillo demiurgico. Sallusti prosegue poi leggendo in filigrana le svolte operaiste di Gramsci e il comunismo come patto di sintesi coi produttori propugnato da Togliatti, la sfera emiliana del comunismo micro-capitalista. In filigrana, ma ben visibile, la tentazione profondamente liberale del comunismo ortodosso che il liberalismo se lo è guardato in maniera obliqua, stortignaccola ma sempre come oggetto di tentazione e di lubrico desiderio erotico-intellettuale.

Non mancano illuminanti e divertenti pagine sul comunismo veicolatosi nella forma del sindacato, nel caso di specie la Cgil. E poi, risalendo lungo il ciglio della battaglia culturale, Sallusti arriva ai punti di svolta e di sinistra involuzione: l’abbandono del realismo, del pragmatismo, del Partito visto e vissuto come forza frenante contro le dissoluzioni della debolezza politica, e l’aver imboccato la tragica, tragicissima strada del moralismo. Berlinguer, diciamolo, con la sua questione morale sbandierata ai quattro venti, fu il precursore, nobile certo ma guardate come siamo finiti, di un certo grillismo, di una magistratura incoronatasi salvatrice delle umane sorti progressive, dell’aver piegato la decisione politica al moralismo spicciolo e sovente strumentale.

Godibili poi le pagine sul fronte culturale, sul fallimento hegeliano del vangelo comunista e su come e quanto gli intellettuali comunisti di un tempo, i filosofi con tessera di partito in tasca, a partire dall’orrido Lukács, fossero comunque più solidi, strutturati, acuti e brillanti del deserto woke che impesta l’oggi. E non è un bel risveglio, per l’oggi dico.

Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, Liberilibri, pp.144. euro 16

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