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Più di 1.200 chilometri pedalando con le mani: il viaggio speciale di Eleonora tra Argentina e Cile

PASIAN DI PRATO. Eleonora “Lola” Delnevo è un’atleta speciale. La scorsa estate ha attraversato la Patagonia fra Argentina e Cile in handbike. Un viaggio speciale come ha raccontato, venerdì 16 febbraio, all’auditorium di Pasian di Prato in occasione della rassegna dei 150 anni della Società alpina friulana dedicata ai diritti, all’inclusione e all’accessibilità in montagna e nella vita.

Sei partita per la Patagonia e hai percorso 1.260 chilometri in 18 giorni (di bici, 23 in totale) in handbike, ovvero pedalando con le mani.

«Non ero mai andata in bicicletta prima. Da quando sto in carrozzina, andavo in montagna con l’auto. Non lo sopportavo, mi impediva di essere attiva: arrivavo in rifugio e mi fermavo lì. La handbike assistita mi permette di muovermi con più libertà».

In Patagonia eri con un’amica, senza grandi organizzazioni.

«È ciò che mi è piaciuto: la libertà. Avevamo la tenda, poi c’erano le “case del ciclista”: edifici abbandonati che servivano da riparo quando il vento era troppo forte. E poi la gente: fantastica, molto povera ma con un grande cuore. È stata la mia finestra per respirare».

Qual è il tuo quotidiano?

«La vita quotidiana è molto più difficile, inutile nasconderlo. Un esempio: dopo anni di libera professione da consulente ambientale, ho vinto un concorso alla Provincia di Bergamo e hanno scoperto che non potevo entrare nel mio ufficio a causa delle barriere architettoniche.

Hanno costruito la rampa al posto degli scalini ed era ripidissima, il bagno inaccessibile.I parcheggi sono spesso occupati. Non lo dico per criticare il mio Comune, succede ovunque. Per questo scappo in montagna. Lassù niente mi innervosisce».

Come hai cominciato a scalare?

«Sono una donna di pianura, cresciuta a Treviglio. I miei ci portavano a sciare, io e mia sorella gemella. Poi all’università – mi sono laureata in Scienze ambientali – ho fatto il primo corso di alpinismo con il Cai e in palestra di arrampicata ho conosciuto i compagni di scalata. Mi sono innamorata del contatto con la roccia, dell’ambiente alpino».

L’incidente.

«Marzo 2015, avevo 34 anni. Una cascata di ghiaccio in Val Daone, con due amici. Si è staccata l’intera struttura. Siamo precipitati. Per fortuna siamo sopravvissuti».
Che cosa è cambiato?

«In me poco: energia, voglia di vivere, di arrampicare, sono le stesse. Ma è totalmente cambiato il modo di vivere. Ho iniziato a guardare il mondo dalla prospettiva dei disabili».

Come ti sei adattata a questa nuova prospettiva?

«Intanto sono tornata subito al lavoro. Ma ciò che mi ha mosso a recuperare le forze, nei mesi della riabilitazione, sono stati gli amici».

Ti hanno invitato a scalare la Via Zodiac della falesia El Capitan, nel parco di Yosemite in California, 550 metri di granito in verticale, che hai affrontato in tre giorni e mezzo e due notti passate appesa in parete.

«Era una novità. Mi sono appassionata. Nel 2016 ci ho provato, ma non siamo arrivati in cima. Siamo tornati nel 2018 e ce l’abbiamo fatta». —

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