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In corsia il Dottor House è meglio di Doc



Nella serie tv con Luca Argentero, in onda in queste settimane, il medico e il suo staff sono campioni di umanità. Ed è evidente quanto negli ospedali veri i camici bianchi non siano tutti così. Ma siamo sicuri che l’empatia/simpatia verso i pazienti corrisponda sempre a un valore aggiunto?


Più di cinque milioni di telespettatori si domandano una cosa sola: ma perché il mio medico non è così? È l’effetto Doc - Nelle tue mani, fiction Rai giunta alla terza stagione che narra la storia - tratta da un libro e da una vicenda realmente vissuta - di Andrea Fanti, primario del reparto di Medicina interna di un immaginario ospedale milanese.

Ebbene, non si chiede il sorriso malandrino di Luca Argentero, che interpreta il protagonista, ma l’empatia sua e dello staff, la vicinanza, l’umanizzazione delle cure, ecco, tutto questo magari sì, lo vorremmo anche nella vita reale. E invece non sempre, o quasi mai, le troviamo. In ogni caso la serie ha scoperchiato il vaso di Pandora, tanto da spingere il presidente della Federazione nazionale Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri, Filippo Anelli, a dichiarare che in corsie e ambulatori occorre più empatia: ma nei tempi cupi che sta vivendo il nostro Servizio sanitario nazionale, stretto tra carenza di medici e di risorse, aggressioni e medicina difensiva, ha senso ricercare anche «soft skills» come partecipazione emotiva e comprensione?

E ancora, questi medici così smaccatamente buoni e comprensivi, amici dei pazienti ai quali danno (e si fanno dare) del tu, sono davvero sempre un bene, nelle attività di reparto? «Non ogni volta e non in tutti i contesti» risponde Giuseppe Pantaleo, ordinario di Psicologia sociale dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. «Sicuramente il concetto di empatia va un po’ rivisto. Pensare che una persona sia empatica e ci ascolti fa bene al pubblico, nel caso della serie, e fa bene a noi quando ci troviamo in una situazione di difficoltà. C’è però un problema: l’empatia può rendere mentalmente, cioè cognitivamente, “ciechi”».

Come ci spiega il professore, l’empatia è un’emozione vicaria che segue una serie di fasi: se si rimane alla prima, cioè quella chiamata «risonanza empatica», l’attenzione viene focalizzata solo sulla persona e sul suo momento di sofferenza. Questo fa sì che sfugga il contesto, come se si indossasse un paraocchi. E qui arrivano i problemi, perché si entra in quella che viene chiamata «tunnel vision», che può far sfuggire indizi molto importanti per fare una diagnosi o trovare un’alternativa terapeutica.

«Come esseri umani adulti, però» prosegue Pantaleo «abbiamo sviluppato anche la capacità di decentrarci, di staccarci da questo fenomeno di risonanza che può renderci ciechi e prigionieri e passare, nelle condizioni ideali, alla fase successiva: questo ci permette di “togliere il paraocchi” e analizzare le varie situazioni con più lucidità».

Attenzione, dunque: ci vuole equilibrio, e se questo manca i danni alle diagnosi e quindi alle cure possono essere rilevanti. Il vecchio detto «il medico pietoso fa la piaga cancerosa» è ancora valido? Non è forse meglio incontrare sulla nostra strada di pazienti il formidabile dottor House (il medico dell’omonima serie tv cult creata nel 2004), con la sua arroganza e il suo cinismo ma con una capacità infallibile di diagnosticare e curare, piuttosto che la rassicurante simpatia di Fanti/Argentero?

«Sicuramente possiamo dire che occorre equilibrio, nel giudicare un medico o un infermiere» spiega Umberto Longoni, psicologo e saggista. «Se è vero che nel sentire comune si tende a considerare un medico empatico più bravo di uno che non lo è, nella realtà può non essere così. Anche se non dobbiamo dimenticare che la cura inizia dalle parole: le neuroscienze ci hanno dimostrato che quelle negative, o i silenzi che esprimono distanza, inducono il cervello a produrre cortisolo, l’ormone dello stress. Mentre le parole positive ci fanno produrre dopamina, serotonina ed endorfine».

In questo modo non solo si aiuta il sistema immunitario a reagire meglio, ma si rafforza anche l’effetto dei farmaci, che vengono assunti con maggiore fiducia e quindi funzionano di più, perché all’azione chimica si aggiunge l’effetto placebo.

C’è però un altro problema: spesso il tentativo esagerato di mostrare agli altri vicinanza e comprensione può in realtà celare insicurezza, dubbi, se non addirittura - in casi estremi - la consapevolezza di non essere all’altezza della situazione. «In generale, quanto più una persona è insicura, tanto più tende a mettere in atto quelli che in psicologia sociale chiamiamo meccanismi di compensazione simbolica» conclude Pantaleo. «Chi si sente a disagio o inadeguato, non all’altezza delle competenze richieste, può cercare di celare questo senso di inadeguatezza con atteggiamenti forzosamente empatici, tendendo a esibirli in maniera esagerata in quanto simbolo immaginario, appunto, di competenza. Poi, ovviamente, non è detto che sia così: possono esserci persone molto in gamba e al contempo empatiche nella giusta misura, oppure troppo empatiche che possono farci nascere il dubbio che stiano compensando».

Insomma, attenzione all’eccessiva simpatia ostentata: ma del resto, nella situazione in cui versano i nostri reparti, i Pronto soccorso e in generale gli ambulatori dei medici, alle prese con mancanza di personale, aggressioni, paura delle denunce, è davvero possibile pretendere che chi già ha difficoltà a curarci possa anche «prendersi cura» di noi nella sua accezione più alta? «Con i tempi della medicina di oggi è sempre più difficile adottare corrette modalità di comunicazione» riflette Massimo Geraci, primario di Pronto soccorso all’Ospedale civico di Palermo. «Se per riuscire a entrare in feeling con i pazienti può bastare un sorriso, nella pratica quotidiana occorre tempo. Inoltre, a parte gli effettivi casi di reale e sincera empatia, spesso questa si concretizza in comportamenti assimilabili alla medicina difensiva, perché può ridurre la conflittualità e quindi il contenzioso medico legale». Il flagello della medicina dei nostri tempi, la paura di denunce da parte dei pazienti che può spingere a fare «i simpatici» a tutti i costi per smorzare tensioni e litigi.

A questo punto, entrando in ospedale è davvero meglio trovarsi davanti il ghigno cinico del dottor House, e riservare il mondo ideale della corsia di Andrea Fanti alle nostre serate davanti alla tv: e se poi - simpatia a parte - dalle corsie usciamo guariti, allora ci possiamo anche permettere di sorvolare sul fatto di non aver incontrato Luca Argentero che fa il giro dei reparti.

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