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Giovanni Lanfranco: Il pittore «rinato» dalla passione dello storico



Con le sue opere, Giovanni Lanfranco è stato un protagonista del Seicento. Ma non sarebbe stato riconosciuto in tutto il suo valore, senza lo sguardo e le intuizioni del grande studioso tedesco Erich Schleier, da poco scomparso. Un sodalizio attraverso i secoli.

Lo vidi, giovane, la prima volta, a casa di Mario Lanfranchi, a Roma, in palazzo del Grillo. Nel 1979. Aveva poco più di 40 anni. Erich Schleier, ormai più italiano che tedesco, era affabile, curioso lontano da ogni retorica. Frasi brevi, asciutte, e un grande occhio. C’erano con noi, in quel tempo felice, gli studiosi romani più appassionati: Claudio Strinati, Maurizio Marini, Luigi Ficacci, Anna Coliva, Filippo Tuena. E, con loro, Fabrizio Lemme. Fascinoso e trascinatore era Luciano Maranzi, restauratore senza falsa dottrina. Giornate indimenticabili, fra antiquari e studi di professori e di restauratori, a caccia di quadri ignoti, sporchi, misteriosi. Da un anno frequentavo la casa di Federico Zeri, santone prima che storico dell’arte, straordinario per battute e paradossi, fra i quali talora baluginavano preziose osservazioni su dipinti sconosciuti. In quei giorni teneva la conversazione un bel dipinto acquistato da Maranzi nella meravigliosa bottega di Mario Bigetti: una Cleopatra morente pagata 800 mila lire.

Al restauro rivelò di essere una prova assai notevole di un grande pittore, Giovanni Lanfranco, e fu chiamato Schleier che di Lanfranco era il primo conoscitore, a dire il suo verdetto. E Lanfranco fu. Dopo tanti anni, in diversi passaggi, il dipinto è approdato alla Galleria Nazionale di Palazzo Barberini, e ognuno può vederlo, pensando alla emozione di quella scoperta, che si riproduce ogni volta che un’opera esce dal buio, come a me è accaduto con la Cattura di Cristo di Rutilio Manetti. Davanti ad alcuni dipinti nuovi di pittori antichi è come se la storia si rimettesse in gioco. E gli occhi di alcuni, come quelli di Schleier, penetrano in un buio fitto, e lo rischiarano, consentendoci di capire ciò che era ignoto. Lui e la moglie, Mary Newcome, se ne sono andati insieme dopo avere per una vita illuminato l’arte italiana del Seicento.

Erich Schleier, nato ad Amburgo nel 1934, aveva studiato storia dell’arte e archeologia alle università di Amburgo, Friburgo e Monaco di Baviera laureandosi con la tesi su Giovanni Lanfranco. Dal 1971 al 1999 è stato curatore della pittura italiana presso la Gemaldegalerie di Berlino, dove andavo a trovarlo con somma soddisfazione. Ha pubblicato i suoi saggi sulle principali riviste internazionali del settore, studi riguardanti gli amati pittori emiliani, romani, napoletani e veneziani dei secoli Cinque, Sei e Settecento; ha curato il catalogo generale dei disegni di Lanfranco nel 1983, e ha collaborato, come membro dei comitati di studio, a numerose e fondamentali mostre internazionali tra cui Paintings in Naples from Caravaggio to Giordano, nel 1982/83; Disegni di Giovanni Lanfranco, nel 1983/84; The Age of Caravaggio, nel 1985; Pietro da Cortona, nel 1997; Roma nell’età di Bellori, nel 2000.

Prima di Schleier, come prima di Mary Newcome, sua moglie, morta poche ore prima di lui, nel dicembre 2023, molti momenti della pittura barocca, in particolare romana, napoletana e genovese, erano oscuri. Oggi sappiamo che Lanfranco è stato il fondatore del barocco romano portando la memoria delle cupole di Correggio da Parma a Roma e a Napoli, al seguito di Annibale Carracci e Guido Reni, e contribuendo a invertire il flusso del Caravaggismo. Lanfranco deve la ricostruzione della sua lunga attività di pittore a Schleier, e a inseguirlo a Napoli fu, tra i primi, l’avventuroso Maranzi che io raggiunsi sulla impalcatura nella chiesa dei Santi Apostoli mentre restaurava la volta, cancellando la sporcizia e il fumo delle candele con la gomma pane. Là sopra incontrai nel 1978 Schleier che raccontava la stagione napoletana del suo pittore: «A Roma, il generale della Compagnia di Gesù, Muzio Vitelleschi, si era proposto in una lettera al preposito di Napoli, V. Carafa, di “provedere con persona eminente”, per il compito di affrescare la cupola del Gesù Nuovo a Napoli, costruita tra il 1629 e il 1633. Dell’8 gennaio 1633 è la sua lettera d’accompagnamento con cui il Lanfranco fece il primo viaggio a Napoli per presentarsi. Del 25 febbraio 1634 è finalmente la lettera d’accompagnamento, con la quale il Lanfranco si recò a Napoli per affrescare gli otto spicchi della cupola e i quattro pennacchi. Il lavoro era sostanzialmente finito nell’estate 1635; ma al Lanfranco fu chiesto di nascondere la “soverchia nudità” degli angeli. Ci furono anche discussioni sul prezzo di 10 mila scudi (invece dei 16.200 chiesti). L’affresco della cupola fu inaugurato il 31 luglio 1636, ma fu distrutto con il crollo della cupola nel 1688.

Il 3 aprile 1637 fu sottoscritto l’accordo tra il padre procuratore dei certosini di San Martino, a Napoli, Isidoro de Alegria, e il Lanfranco che doveva dipingere la volta della navata della chiesa, le mezze lunette accanto alle sei finestre con i 12 apostoli, le due mezze lunette della controfacciata con la Vocazione degli apostoli Pietro e Andrea e la prima apparizione di Cristo ai discepoli sul lago di Tiberiade. In un secondo contratto del 9 febbraio 1638 il Lanfranco si impegnò “a far di novo rifare e ritoccare tutto quello che il […] Priore vorrà […] et più fare un quadro ad oglio per la Cappella di S. Ugo”. (…) Il lavoro durò fino al 1646. Complessivamente il Lanfranco riscosse 10 mila ducati: 4 mila per la prima parte, finita nel 1641. Si trattava della decorazione di quasi l’intera chiesa (al di sopra del cornicione), salvo la cupola non ancora costruita, che fu affrescata solo nel 1680 da G.B. Benaschi. Gli affreschi del coro sono firmati e datati 1641.

Il 16 agosto 1640 il Lanfranco ottenne l’incarico di dipingere i quattro grandi riquadri nella volta con scene di martirio degli apostoli, un riquadro più piccolo con le glorie di sei apostoli, vicino alla cupola. (…) Mentre gli stuccatori lavoravano nella navata, il Lanfranco interruppe i lavori ai Ss. Apostoli per dipingere l’affresco della cupola nella cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo, affidatogli dopo la morte del Domenichino (6 aprile 1641), che lo aveva lasciato incompiuto. (…) Nel 1645 il Lanfranco firmò la pala d’altare della cappella dei Forestieri, divenuta più tardi cappella privata del cardinale, raffigurante S. Pietro e S. Gennaro che presentano il cardinale Filomarino alla Vergine. Gli ultimi affreschi pervenuti del Lanfranco a Napoli sono quelli, descritti da Bellori, nella volta dell’oratorio dei Nobili nella casa professa del Gesù, intorno all’affresco centrale di G.B. Caracciolo detto il Battistello. Forse per questo motivo (Bellori), o “per esser rimasto privo d’impiego” e“stimolato dalla moglie” (Passeri), alla fine del 1646 il Lanfranco tornò a Roma, dove visse con la moglie e il figlio Giuseppe presso il fratello Egidio nel vicolo del Cinque in Trastevere»

Come vediamo dal testo precedente, Schleier insegue giorno per giorno, ora per ora, il suo pittore, e vive con lui sulle impalcature dove Maranzi lo riporta. La storia rivive, si fa avventura, con le dita eccitate sugli affreschi coperti dalla polvere del tempo. E mentre Erich è a Napoli, la moglie Mary compie un’analoga impresa a Genova, e scopre affreschi dimenticati e mai più visti. A Mary Newcome dobbiamo gli studi definitivi su grandi pittori genovesi, dopo gli studi di Ezia Gavazza: dal ritrovamento degli affreschi di Bernardo Strozzi a palazzo Lomellino, agli studi monografici su Gregorio de Ferrari e Domenico e Bartolomeo Guidobono. Entrambi meriterebbero il pubblico encomio e la cittadinanza onoraria postuma di Roma e di Genova. Per capirne la intrinsichezza con l’ambiente romano sono notevoli le lettere di Schleier a Giuliano Briganti, senza competizione, e con il solo obiettivo di raggiungere la verità nella conoscenza di artisti come Pietro da Cortona (cui Briganti dedicò un testo fondamentale), Fiasella, Mola, Vanvitelli. Commuove tanta passione per l’Italia, nella corrispondenza da Amburgo, da Berlino, da Pittsburg, con le richieste di informazioni su colleghi studiosi, su pubblicazioni in corso. Tempi memorabili, per me che ero della generazione successiva, e che vedevo gli studiosi come Arcangeli, Volpe, Causa, Briganti titolari di un sapere che si iniziava a frantumare, in mille specialità proprio con grandi stranieri come gli Schleier, Richard E. Spear, Walter Vitzthum, Herwarth Röttgen, più italiani degli italiani. Schleier lo era anche di temperamento: poteva essere nato a Parma, e ne aveva aristocrazia e umore. Mi piace ricordarlo come un parallelo tedesco di Eugenio Riccomini, suo coetaneo, che se ne è andato qualche giorno dopo. Sappiamo di più di amati artisti grazie a loro.

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