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Quattro anni di Covid in Veneto costati quasi 18 mila vittime 

Fino a quattro anni fa, ne conosceva l’esistenza solo una ristretta cerchia di appassionati di curiosità statistiche: assieme a Ne in provincia di Genova e a Re in quella di Verbano, la padovana Vo’ era nota soltanto per essere il paese col nome più corto d’Italia. Ma dal 21 febbraio 2020, quel nome è rimbalzato nell’intera penisola, e pure fuori dai confini, per la morte di un suo abitante: Adriano Trevisan, 77 anni, prima vittima del Covid.

Nove giorni prima era stato ricoverato nell’ospedale di Schiavonia, in terapia intensiva. Un paio di settimane dopo il decesso, identica sorte sarebbe toccata a un suo amico, con cui usava giocare a carte: Renato Turetta, 67 anni. “Da quel giorno siamo cambiati tutti”, avrebbe detto Manuela, la figlia di quest’ultimo, il 18 marzo 2022, nella giornata mondiale del ricordo delle vittime.

Il caso quasi incredibile di Vo’

Da quel tragico 21 febbraio Vo’ era diventata l’avamposto della lotta alla pandemia: isolata dal resto del mondo, le sue poco più di tremila anime bloccate in un paese marchiato dalla “zona rossa”, una quarantena di massa che sarebbe durata fino al 3 marzo. Lì poco dopo arrivava l’équipe di Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova: il quale di persona conduceva uno screening di massa sulla popolazione mediante tamponi; studio che sarebbe diventato fondamentale per la lotta al virus. Al ruolo di Vo’ avrebbe attribuito uno specifico riconoscimento il capo dello Stato Sergio Mattarella, arrivando assieme al ministro all’Istruzione Lucia Azzolina a inaugurare, il 14 settembre 2020, l’anno scolastico dell’istituto comprensivo intitolato a Gianni Rodari e Guido Negri.

Quattro anni dopo, il Veneto si trova di fronte a un conto pesantissimo inflittogli dalla pandemia: 2.840.379 casi sugli oltre 26 milioni registrati in tutta Italia, 17.459 vittime, 2.813.085 pazienti guariti, ma in molti casi con postumi pesanti a diversi livelli per quello che viene chiamato il long-Covid. Uno tsunami passato, ma che registra ancora sia pur modestissime code: i positivi sono 9.835, anche ieri con un incremento di 28 unità; sempre ieri si sono registrati 77 nuovi casi. Con un trend che ha avuto un’impennata drammatica nel 2022, fino a toccare i 288.819 casi all’antivigilia di Natale. Con il picco delle vittime pochi giorni dopo, il 29: 191.

E anche se nella vita quotidiana è tornata la normalità, alcune misure di contrasto rimangono in vigore: a partire dalle mascherine, obbligatorie in certi contesti fino al prossimo 30 giugno.

Dall’ottimismo alle polemiche

Sono stati quattro anni, per il Veneto come per il resto d’Italia, partiti con un’ondata di ottimismo ma presto degenerati in una serie di aspri contrasti e feroci polemiche. Dall’inno nazionale e dal “Ce la faremo” declamati dai balconi, agli scontri esplosi soprattutto intorno al ricorso al vaccino.

Le persone confinate in una casa che presto è stata avvertita da molti come un carcere. La classica stretta di mano retrocessa a fugace contatto di gomito. Il lavoro quotidiano e le riunioni periodiche a distanza, ciascuno blindato davanti al computer. Negli ospedali, le terapie intensive prese d’assalto, in cui il personale sanitario si è reso protagonista di atti di autentico eroismo, con un patrimonio di consensi peraltro eroso rapidamente: fino a degenerare in troppi casi in vere e proprie aggressioni, verbali e fisiche. E l’intera medicina messa in ginocchio: la necessità di concentrare le risorse umane, cliniche, organizzative sul contrasto al Covid ha penalizzato ogni altro settore ospedaliero, con liste d’attesa esplose sia negli interventi chirurgici che nelle prestazioni ambulatoriali.

In quattro lunghi, feroci, devastanti anni, il coronavirus esploso in Cina alla fine del 2019 ha lasciato il segno non solo sulla salute fisica di tante, troppe persone, ma pure su quella psicologica della collettività: siamo tutti cambiati, in peggio. Anche perché sappiamo che non è finita qui: gli esperti ci segnalano che già in questo 2024 dovremo far fronte a nuove ondate di virus, con l’arrivo di agenti patogeni mai visti o comunque rarissimi. La guerra continua.

L’intervista alla coordinatrice

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Pare di rivederla a Marghera, nella sala stampa della Protezione civile, a un battito del cuore da Luca Zaia e Manuela Lanzarin. Tailleur elegante, occhi cerchiati dalle notti in bianco, cartelle e grafici sottobraccio. All’apice dell’emergenza coronavirus, la Conferenza delle regioni affidò a Francesca Russo il coordinamento delle attività di prevenzione, un incarico cruciale, che il medico igienista della Regione mantiene tuttora.

Dottoressa, cosa le resta di una stagione segnata da morte, dolore, paura?

«Personalmente, non riesco a considerare il Covid un semplice ricordo. Fatico a metabolizzarlo, è stato un evento drammatico che ha fatto soffrire tante persone. Non lo voglio cancellare. Dal punto di vista professionale, invece, si è rivelato un banco di prova importante nel supporto decisionale e operativo all’unità di crisi. Abbiamo sperimentatola reazione della sanità pubblica all’emergenza, imparando a confrontarci con diversi attori: il circuito ospedaliero, la medicina d’urgenza, la comunicazione. Una prova del fuoco che ha accresciuto le nostre capacità, rafforzando le risposte non solo alla pandemia ma anche alle epidemie, dal morbillo alla West Nile alle crisi ambientali, con esercitazioni sul campo e test sistematici».

Vittime a migliaia, un nemico sconosciuto, armi spuntate, contagi inarrestabili. Ha mai temuto di non farcela?

«Certamente sì. Un virus così letale e aggressivo rappresentava un nemico terribile. Ci ha colto di sorpresa, era più forte di noi. All’inizio mancava tutto - dispositivi, farmaci, vaccini - perciò l’unica difesa possibile era distanziare la popolazione dai focolai. Con la zona rossa, il blocco degli spostamenti, la sospensione mirata delle attività. Il timore di essere travolti e sopraffatti ci ha angosciati a lungo ma non è mai venuta meno la volontà di combattere. E a posteriori, oggi, mi capita di pensare che se abbiamo resistito al Covid possiamo affrontare qualsiasi pericolo».

C’è chi ha criticato il vostro operato, soprattutto nel dicembre 2020, in occasione della seconda, micidiale, ondata. Con un corollario di denunce e inchieste finite in archivio.

«Fin dall’inizio eravamo consapevoli che saremo stati giudicati, perciò abbiamo documentato l’intero percorso seguito. Una mappatura completa che abbiamo esibito alla commissione d’inchiesta del Consiglio regionale. Non spetta a me valutare il nostro lavoro, posso dire che abbiamo sempre cercato di agire al meglio. Una squadra di colleghi rispondeva alle mail, migliaia, che ponevano quesiti e richieste d’aiuto di ogni tipo. Riunioni notturne improvvise con il ministero e l’Istituto superiore di sanità che imponevano scelte immediate a fronte di processi decisionali complicati. L’impegno, portato a termine, di stilare le linee guida per la riapertura in tutta Italia. Errori? È possibile. Ma non ci siamo mai risparmiati e la politica della Regione ha sempre lavorato al nostro fianco».

La sanità veneta è uscita rafforzata?

«Sul piano organizzativo senz’altro. Anche l’interlocuzione con Roma, non sempre indolore, si è rivelata fruttuosa: oggi alle Regioni sono consentite operazioni cautelari, dal magazzino di dispositivi all’entità dei posti letti, che in precedenza erano vietate».

Dal 2 gennaio, in Veneto è in vigore un nuovo piano pandemico. Quali sono i suoi capisaldi?

«Il principio ispiratore è quello di fare tesoro delle lezioni più dolorose. Siamo convinti che la prevenzione non debba limitarsi alla farmacologia, perciò insistiamo sulle zone colorate, distinte per ogni tipologia di rischio. In quattro anni anche le nostre conoscenze microbiologiche sono cresciute e vogliamo condividerle con la popolazione, accompagnandola in un percorso virtuoso».

Scaramanzia a parte, il coronavirus è un capitolo concluso?

«La sua circolazione, in ogni parte del mondo, è sempre più modesta. Non provoca decessi né ricoveri, convive con noi al pari di una comune influenza. Detto ciò, non mi sento di affermare che il pericolo è finito. Noi lo monitoriamo ancora, ricercando e sequenziando ogni variante attiva».

Morale (provvisoria) della favola?

«Cerchiamo di proteggere noi stessi e gli altri. Se remiamo tutti nella stessa direzione, saremo più forti». —

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