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Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 29 febbraio

Cinema al cento per 100, ecco le nostre recensioni dei film in sala dal 29 febbraio

foto da Quotidiani locali

DUNE PARTE DUE | ESTRANEI | LA SALA DEI PROFESSORI | CARACAS

DUNE – PARTE DUE

Regia: Denis Villeneuve

Cast: Timothée Chalamet, Zendaya, Rebecca Ferguson, Josh Brolin, Austin Butler

Durata: 165’

È uno dei film più attesi dell’anno: con “Dune – Parte Due” il regista canadese Denis Villeneuve (già autore del primo capitolo presentato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2021) adatta per il grande schermo la seconda parte del primo, iconico, romanzo del Ciclo di Dune di Frank Herbert. L’inizio è potente.

Dopo che la Casa degli Atreides è stata annientata dagli Harkonnen guidata dal Barone Vladimir (Stellan Skarsgård), con la complicità dell’imperatore (Christopher Walken) e della sua veridica (Charlotte Rampling), Paul Atreides (Timothée Chalamet), erede al trono sopravvissuto al massacro, e sua madre Lady Jessica (Rebecca Fwerguson) si sono uniti ai Fremen, i misteriosi abitanti del pianeta Arrakis, guidati dal leader Stilgar (Javier Bardem) che comanda un manipolo di combattenti, trai quali si distingue la coraggiosa Chani (Zendaya), la stessa che abita i sogni premonitori di Paul. Nell’immensità di un deserto dagli arancioni accesi, l’imboscata dei Fremen ai danni degli Harkonnen è spettacolare: i corpi lievitano, si scontrano e cadono avvolti in una luce sabbiosa.

È solo una delle tante battaglie che si combatteranno in “Dune – Parte Due”, il cui impianto visivo e sonoro (con gli inquietanti bassi di Hans Zimmer) è di innegabile impatto in un film che riprende la traccia epica e autoriale del primo capitolo, riempiendola, questa volta, di un significato a cui Villeneuve aveva solo spianato la strada nel 2021.

Ora che atmosfere, ruoli e fili narrativi assumono una loro compiutezza, “Dune” si apre ad una fantascienza che, più diventa imponente e più, paradossalmente, si rivela per quello che, realmente, è: una riflessione storica, politica e sociale sul potere e sulla fede.

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Paul Atreides è Lisan Al-Gaib, “la voce del mondo esterno”, il profeta che una parte del popolo Fremen aspetta da secoli. Ed è sulla tensione messianica, sui dubbi e i tormenti di chi porta il peso della profezia, che Villeneuve cerca e trova il ganglio del suo film che si insinua nei pericoli del fondamentalismo religioso, negli incubi totalitaristici (le impressionanti sequenze in un irreale bianco e nero sul pianeta degli Harkonnen, dove fa il suo ingresso il personaggio del feroce Feyd-Rautha, interpretato da un convincente Austin Butler) e, infine, in quella dicotomia tra sacrificio e salvezza che conduce a una sanguinosa guerra santa. Timothée Chalamet regge a dovere il ruolo del prescelto che conferisce al film quella cifra intimista e soliloquista che Villeneuve riesce a fondere con la magnificenza e la potenza delle immagini.

La seconda parte di “Dune”, infatti, è capace di dilatarsi e di restringersi come un mantice, tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, come la cellula uovo fecondata che cresce nel grembo di Lady Jessica.

Tra la guerra totale e le imboscate dei Fremen, tra i vermi giganti e le subdole manipolazioni della sorellanza delle Bene Gesserit.

In questa elasticità “Dune” è lo specchio del suo stesso regista con la sua architettura di immagini mainstream e di design, fortunata e (forse) irripetibile crasi tra autorialità e opulenza hollywoodiana. (Marco Contino)

Voto: 8

***

ESTRANEI

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Regia: Andrew Haigh

Cast: Andrew Scott, Paul Mescal, Jamie Bell, Clare Foy

Durata: 105’

Il tempo è, ancora, una volta, una delle colonne portanti del cinema di Andrew Haigh. Se nel suo film del 2011- Weekend - si dilatava nell’innamoramento tra Russell e Glen, lungo solo un fine settimana, in “45 anni” un evento del passato irrompeva bruscamente nel presente di una coppia navigata, svelando come la loro unione fosse stata, fino ad allora, solo “fumo negli occhi” (come la canzone dello struggente ballo finale).

Nel suo nuovo film, il tempo si può persino attraversare: “Estranei” è, infatti, una storia - sorprendentemente sospesa tra melò e ghost movie - in cui passato e presente si specchiano l’uno nell’altro trovando, infine, nelle stelle una sorta di consolazione atemporale, una dimensione finalmente pacificata.

Quello di Haigh è un cinema di rifrazioni, di finestre e specchi di ascensori che riflettono la vita solitaria di Adam (un intenso Andrew Scott dal sorriso sempre triste e tormentato, come i suoi profondi occhi neri), sceneggiatore queer in crisi che scruta Londra dalla finestra del suo appartamento, in un grattacielo quasi “fantasma”.

Una notte alla sua porta bussa Harry (Paul Mescal) che vive qualche piano più sotto: vorrebbe entrare, bere un drink, sedurlo, ma Adam rifiuta. L’incontro apre una sorta di dimensione ucronica in cui Adam ritorna da adulto nella casa dei suoi genitori (interpretati da Jamie Bell e Clare Foy) come se non fossero mai morti in un tragico incidente d’auto quando lui era solo dodicenne.

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È l’occasione per dire loro ciò che, allora, non poteva confessare: il suo sentirsi diverso, i pianti notturni, gli atti di bullismo subiti. Parallelamente Adam e Harry si incontrano nuovamente: la loro sintonia diventa sempre più profonda, si amano, le loro “estraneità” si compenetrano e completano. Come la realtà e il sogno, la carne e l’anima, la tangibilità di corpi che si muovono morbidi sotto la spinta di un desiderio troppo a lungo negato e l’inafferrabilità di entità fantasmatiche.

A tenerli insieme è l’amore (come suggerisce la canzone dei Frankie Goes to Hollywood, “The Power of Love”) che, prima di assurgere a stella, deve passare per lo strazio e il dolore in un film che Haigh mantiene sempre in un equilibrio limbico e mai retorico, nella struggente penombra di un appartamento dove la vita si consuma per poi riaccendersi. (Marco Contino)

Voto: 8

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LA SALA DEI PROFESSORI

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Regia: Ilker Çatak

Cast: Leonie Benesh, Michael Klammer

Durata: 98’

Chi l’ha frequentata sa che la sala professori di una scuola non è propriamente un luogo di varia umanità dove i docenti si confidano e si scambiano consigli con serenità, ma piuttosto vede spesso prevalere la sindrome del Marchese del Grillo (“io son io e voi non siete …”), con conseguenze evidenti anche nella didattica.

Da qualche parte in Germania, vicino ad Amburgo, esiste una scuola dove la situazione non è diversa, peggiorata da sospetti e tensioni sociali e personali: è “La sala professori” di Ilker Çatak, inserito nella cinquina in lizza per l’Oscar come miglior film internazionale, un tempo solo “straniero”, al pari del nostro “Io capitano”.

E avrà il suo bel daffare, Matteo Garrone, per sopravanzare Ilker Çatak, perché anche il film tedesco è ricco di elementi pregnanti, di interpretazioni importanti, di spunti sociali di rilievo.

Tutto ruota attorno a Carla Nowak (Leonie Benesch), una giovane e promettente insegnante al suo primo incarico. Tutto sembra andare bene, fino a quando una serie di piccoli furti all'interno della scuola mette in subbuglio l’istituto.

Quando i sospetti cadono su uno dei suoi studenti, Carla decide di andare di indagare personalmente, scatenando una serie inarrestabile di reazioni a catena, che coinvolgono gli adulti prima che gi adolescenti. Il film mette in risalto i problemi quotidiani di docenti e allievi, a qualsiasi latitudine, quando si scontrano con la burocrazia e i limiti umani.

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Nel film di Çatak c’è una particolare attenzione e ricerca verso la costruzione dei personaggi, la varietà, l'ambivalenza e l'accuratezza nelle descrizioni delle situazioni.

Nella vicenda di Carla che cercando di essere obiettiva e corretta si ritrova isolata sia tra gli studenti, che dai colleghi, si possono leggere dinamiche comuni non solo ai professori, ma a tante persone che nel mondo del lavoro cercano di trovare una mediazione.

Certamente è l’istituzione didattica a esser messa sotto la lente del film, ma non per denigrarla, quanto per mostrare le contraddizioni più evidenti, basterebbe citare il dualismo tra tolleranza zero/democrazia. Dove non basta resistere per modificare le cose, senza farsi prendere dal panico o dal senso di sconforto. (Michele Gottardi)

Voto: 7

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CARACAS

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Regia: Marco D’Amore

Cast: Marco D’amore, Toni Servillo, Lina Carmelia Lumbroso

Durata: 110’

Andare oltre Ciro e “Gomorra” non dev’essere stato facile per Marco D’Amore, che pure ha esordito dietro alla macchina da presa già cinque anni fa.

Ora ci riprova trasportando sullo schermo “Napoli Ferrovia” di uno dei cantori più profondi della napoletanità diversa, Ermanno Rea. Giordano Fonte (Toni Servillo) è uno scrittore partenopeo che si aggira in una Napoli che inghiotte e terrorizza, ma allo stesso tempo affascina, una città che non riconosce più dopo esservi tornato dopo molti anni e per questo decide di non scrivere più.

Qui ritrova Caracas (Marco D'Amore), un uomo che milita nell'estrema destra e che sta per convertirsi all'Islam, alla ricerca di una verità sull'esistenza che non sa trovare. Giordano canta l'amore impossibile tra Caracas e Yasmina, tossica in via di redenzione, attraversando una città dove tutti sperano di salvarsi. Una città che è facile paragonare a una bolgia dantesca, ma che proprio per questo supera il cliché del tirare a campare, della facile camorrìa, dei borseggiatori e degli spacciatori, assumendo una bellezza diversa.

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Servillo quasi as himself, incarna una sorta di Virgilio che guida e conduce Caracas tra ricordi ed emancipazioni.

La descrizione di luoghi e personaggi di D’Amore è forse iperrealistica, a gratti eccessivamente circolare e ridondante, ma mai eccessiva o sguaiata, sia nella descrizione della violenza squadrista, da brividi la rievocazione delle riunioni dei neofascisti, che nelle frequentazioni degli ambienti islamici, cui sia il regista che il suo alter ego del titolo si avvicinano con curiosità e interesse.

Ne scaturisce un ritratto multietnico e cosmopolitico di Napoli e della sua gente che il cinema ormai ben ritrae, dal gruppo dei cineasti “vesuviani” di Martone, Capuano, Corsicato e De Lillo, ai Manetti Bros. e al Sorrentino di “È stata la mano di Dio”, passando magari per un documentario di Ernesto Pagano da recuperare come “NapolIslam” (2015), sui convertiti napoletani all’Islam. (Michele Gottardi)

Voto: 6

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