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Attanasio, il processo che non si doveva fare



Sono passati tre anni dall’assassinio dell’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, ma suo padre non si dà per vinto. E chiede che si accerti finalmente la verità. Perché quanto emerso finora, anche nei processi, non è attendibile.

«È in corso un’altra indagine sull’omicidio di mio figlio. Gli atti sono ancora secretati, ma spero che servirà a fare luce sugli esecutori materiali dell’assassinio, il vero movente e i mandanti» rivela a Panorama Salvatore Attanasio, il padre di Luca, il nostro ambasciatore in Repubblica democratica del Congo (RdC) ucciso il 22 febbraio del 2021 con il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Tre anni dopo il primo assassinio di un ambasciatore italiano in tempo di pace, il processo per omicidio colposo contro due funzionari del Pam (Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite) è stato «infoibato» per l’immunità chiesta dall’Onu. La Procura impugnerà «il non luogo a procedere per difetto di giurisdizione», ma la vicenda lascia l’amaro in bocca. «Ne avevo parlato prima con i vari ministri degli Esteri che si sono avvicendati e un attuale alto rappresentante di Palazzo Chigi. Tutti hanno garantito la ricerca della verità» dice con amarezza Salvatore Attanasio. Le famiglie delle due vittime italiane hanno accettato un risarcimento del Pam. Luca Attanasio aveva tre figli piccoli.

Leggendo gli atti, però, sono evidenti le responsabilità dei due accusati del Pam, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, responsabile della sicurezza nella provincia di Goma. «Invece che andare a fondo è saltato fuori che i funzionari coinvolti sono intoccabili grazie all’immunità. Il messaggio del processo archiviato è stato chiaro: chiudiamola così altrimenti si apre il vaso di Pandora» denuncia Pietro Rinaldi, missionario saveriano oggi a Ravenna, 14 anni passati in RdC dove ha conosciuto Attanasio. Sergio Colaiocco, sostituto procuratore presso il tribunale di Roma, ha ricostruito con precisione l’agguato e le gravi mancanze sulla sicurezza. Il 22 febbraio 2021, attorno alle 9.30 del mattino, due veicoli del Pam, non blindati e privi si scorta, partivano da Goma, nell’est della Rdc, diretti a Rutshuru percorrendo la Route N2. La regione orientale del Kivu, infestata da oltre 100 gruppi armati, in parte eterodiretti da Ruanda e Uganda, è teatro di un conflitto spaventoso dal 1994. Questa guerra africana è il più sanguinoso massacro dalla Seconda guerra mondiale: almeno cinque milioni di morti e centinaia di migliaia di donne violentate, oltre al saccheggio delle risorse minerarie.

Il convoglio di Attanasio, organizzato dal Pam, viene seguito da vedette in motocicletta. Verso le 10 del 22 febbraio arriva a Kibumba dove un gruppo di uomini armati di kalashnikov e machete, appostati nel villaggio da due giorni, sbarra la strada all’ambasciatore e agli altri costringendoli a seguirli nella boscaglia, ma verso una postazione dei ranger che sorvegliano il parco nazionale di Virunga. Scoppia un conflitto a fuoco. Il carabiniere Iacovacci muore sul posto, Milambo, l’autista congolese del fuoristrada con l’ambasciatore, viene freddato senza pietà. Attanasio è gravemente ferito, ma spirerà più tardi all’ospedale militare della missione Onu Monusco. Sui due veicoli bloccati dal gruppo armato c’erano anche Leone e Rwagaza, miracolosamente sopravvissuti e finiti sotto inchiesta. Il responsabile Pam per la sicurezza viene solo ferito a una mano e l’italiano, ultimo della fila sotto tiro dei rapitori, cade a terra e riesce a tornare indietro.

Le indagini hanno evidenziato le gravi mancanze rispetto alle «procedure in materia di gestione dei rischi e della sicurezza». Non è stata coinvolta la missione dell’Onu, che poteva fornire una scorta. Il «via libera sicurezza» è stato chiesto non con 72 ore di anticipo come previsto, ma solo la sera prima. E al posto di Attanasio e Iacovacci sono stati indicati i nomi di due dipendenti del Pam, così la procedura era standard e non per un ambasciatore, soggetto particolarmente a rischio. Addirittura sono state date «assicurazioni a Iacovacci, a seguito delle sue richieste, di poter usufruire di veicoli blindati», ma il Pam non ne aveva a disposizione. Elmetti e giubbotti antiproiettile sono rimasti nel bagagliaio. Il pubblico ministero ha puntato il dito contro Rwagaza, responsabile della sicurezza del Pam e il direttore facente funzioni Rocco Leone chiedendo il rinvio a giudizio per omicidio colposo.

Per il viaggio, programmato da mesi, c’era tutto il tempo di attuare alla perfezione i protocolli. Dubbi e ombre rimangono, a partire dagli scarsi elementi sul conflitto a fuoco fra sequestratori e ranger. Come è possibile che su sette persone portate via, le due vittime di una raffica di mitra siano proprio l’ambasciatore ed il carabiniere? Forse erano colpi mirati, ma perché sarebbero stati uccisi dai rapitori, i due bianchi che erano evidentemente gli ostaggi più remunerativi, mentre il terzo, Leone, è riuscito a dileguarsi? Nessuno del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, che indagava, ha potuto andare sul luogo dell’imboscata o vedere e ispezionare il fuoristrada utilizzato dall’ambasciatore. «Non credo minimamente al movente del sequestro a scopo di estorsione per 50 mila dollari» dichiara il padre di Attanasio. «Vorrei capire quale rapitore ammazza l’ostaggio dopo pochi minuti. È stato un attacco terroristico mirato. Mezz’ora prima era passato un convoglio simile senza che accadesse nulla».

L’8 aprile dello scorso anno un tribunale di Kinshasa ha condannato all’ergastolo sei congolesi per l’omicidio di Attanasio, Iacovacci e Milambo. Cinque, finiti in manette, farebbero parte della banda di criminali «Balume Bakulu». Il loro capo, nome di battaglia Aspirant, avrebbe ucciso l’ambasciatore, ma è ancora latitante. «Hanno trovato sei capri espiatori da condannare. Beato chi ci crede» sostiene il missionario Rinaldi. Lo Stato italiano si è costituito parte civile nel processo in RdC, ma non l’ha fatto a Roma. Alla fine la Farnesina ha confermato l’immunità dei due imputati ponendo di fatto una pietra tombale sul processo. Il quartier generale del Pam è a Roma e dall’inizio delle indagini le Nazioni Unite avevano sventolato «l’immunità girusidizionale». Nella memoria difensiva si legge che «l’Onu ha contestato al governo italiano la violazione delle due convenzioni del 1946 e 1947 segnalando che la prosecuzione del procedimento penale contro i due funzionari violerebbe ulteriormente gli obblighi giuridici internazionali in capo all’Italia relativamente all’immunità delle Nazioni Unite». All’udienza del 24 gennaio due testimoni del ministero degli Esteri hanno confermato gli obblighi italiani avallando di fatto l’immunità funzionale di Leone e Rwagaza. A questo punto il giudice per le udienze preliminari, Marisa Mosetti, ha deciso per il «non luogo a procedere».

Il veterano del giornalismo, Toni Capuozzo, commenta: «Il mio timore è che Attanasio fosse così eccentrico rispetto allo stile della diplomazia italiana, che in qualche modo sia sempre stato sentito come un corpo estraneo. Si muoveva come un volontario. E questo pesa sulla ricerca della verità. Giulio Regeni (torturato e ucciso in Egitto, ndr) è diventato un simbolo, ma Attanasio no. Per me lo sono tutti e due». Sulla fine del processo Domenica Benedetto, che doveva sposare il carabiniere Iacovacci, ammette: «È stata una grande delusione. Lo Stato si è fatto da parte. Sono sfiduciata e arrabbiata, ma noi familiari continuiamo, sempre, a chiedere giustizia».

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