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Lili Refrain in concerto al teatro Miela: suona 80 chilogrammi di strumenti

Lili Refrain in concerto al teatro Miela: suona 80 chilogrammi di strumenti

foto da Quotidiani locali

TRIESTE «Ho notato la qualità delle protagoniste che si esibiscono nelle varie arti e sono molto orgogliosa di farne parte. È bello offrire un punto di vista un po’ diverso dal solito»: Lili Refrain è in concerto al teatro Miela di Trieste venerdì 1 marzo, alle 21, nell’ambito della rassegna “Protagoniste”.

Polistrumentista, compositrice e performer romana, attiva dal 2007, è molto apprezzata anche all’estero, tanto che la leggendaria band rock/goth inglese The Cult l’ha voluta in apertura del tour. «In passato avevo suonato due volte al Tetris di Trieste – racconta l’artista – nel 2011 e 2015. Ne ho un bellissimo ricordo. Conosco poco la città, si sa che la “maledizione” dei tour è non riuscire mai a esplorare il luogo del concerto come vorresti, i chilometri da fare sono sempre tanti e il tempo poco. Di recente ho suonato anche al Kino Šiška di Lubiana con la triestina Kariti, un’amica conosciuta proprio al Tetris, che non vedevo da tanto, è stato bello condividere il palco».

Al Miela cosa farà ascoltare?

«Porterò il set tratto dal mio quinto album “Mana”. Se inizialmente suonavo solo la chitarra, ora mi avvalgo di più strumenti, ho allargato con le percussioni (tra cui il taiko giapponese), il sintetizzatore, le loop stations (che in tempo reale registrano quello che faccio dal vivo e lo ripropongono in loop, creando una vera e propria performance sotto gli occhi del pubblico). E lentamente ho iniziato a prendere sempre più consapevolezza della voce».

Si porta dietro un bel po’ di attrezzatura.

«Precisamente 80 chili! Diciamo che non ho scelto la via facile, ma va bene così».

Il termine “ritualità” come si associa alla sua musica?

«La musica è uno dei riti più potenti che abbiamo, atavicamente ci riconnette a qualcosa di antico che fa parte di noi. Onde che riverberano in maniera invisibile in un dialogo in cui non uso parole, quando c’è questa risonanza scattano delle memorie e succede sempre qualcosa di forte emotivamente. Mi piace mettere l’accento sulla solennità del rituale, provo un gran rispetto per questo mezzo di comunicazione».

In scena ha il volto dipinto, che valenza ha?

«Dipingo gli occhi completamente di nero, qualcuno ha citato lo stile sudamericano, ma in realtà uso il carbone e l’olio d’oliva alla maniera dei mamuthones nel carnevale sardo. È una sorta di contatto con l’invisibile, come quando si chiudono gli occhi ed è tutto nero, ma si entra in un altro mondo, quello del sogno».

È approdata a prestigiosi festival europei (Roadburn, Hellfest, Desertfest…). Poi l’hanno chiamata i Cult, ci racconta?

«Sono stata tre mesi in tour in Europa con gli scandinavi Heilung. Subito dopo mi arriva su Instagram un messaggio di Ian Astbury, cantante dei Cult: “love your music” con un cuoricino nero. Ovviamente pensavo fosse un fake. E invece segue la proposta ufficiale di aprire i loro concerti ed essere special guest ben due volte perché mi hanno richiamata anche per il quarantesimo anniversario dei Death Cult. È stato pazzesco, ho girato con loro per due mesi, prevalentemente in Inghilterra, mi hanno insegnato tantissimo».

Com’è all’estero?

«Badano meno alle categorizzazioni. In Italia ho dovuto fare più gavetta perché mi hanno sempre vista come quella “strana”, sperimentale».

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