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Quei segnali di rinascita nella società per affrontare le molte crisi del presente

Quei segnali di rinascita nella società per affrontare le molte crisi del presente

foto da Quotidiani locali

IVREA. Ha debuttato nel migliore dei modi, lo scorso lunedì 26, alla sede dell’Olivetti leadership institute (Oli), il ciclo di incontri Costruire comunità, dialoghi e riflessioni sull'appartenenza e la partecipazione, con un’ospite d’eccezione, la filosofa eporediese Giorgia Serughetti, 45 anni, ricercatrice in Filosofia politica al Dipartimento di sociologia e ricerca sociale all’Università di Milano-Bicocca, che, conversando con Stefano Zordan, co-founder di Oli, ha presentato il suo libro La società esiste, edito da Laterza. Libro che esplora diffusamente il ruolo che temi come la responsabilità collettiva e l'uguaglianza potrebbero avere oggi nella nostra società, promuovendo un dialogo sulle strategie per creare comunità più solidali. Il ciclo di incontri inaugurato da Serughetti e che durerà fino a giugno, mira a fare interrogare i partecipanti sulle sfide dell’identità e su che cosa significhi oggi esercitare leadership nelle nostre comunità.

Con grande disponibilità, Giorgia Serughetti ha accettato di rispondere anche ad alcune domande rivoltele dalla Sentinella del Canavese.

Il suo libro richiama, nel titolo l’affermazione “La società non esiste”, fatta nel 1987 dalla Thatcher, fautrice politica, insieme a Reagan, di quella rivoluzione neoliberista innescatrice di politiche che hanno messo in crisi la cittadinanza fondata sui diritti fondamentali, delegittimando il welfare e demolendo il pubblico. Che effetti ha avuto quella frase e che cosa ha impedito che il processo diventasse irreversibile?

«Nel libro tratto quella di Thatcher come una profezia che si autoavvera, un enunciato capace di dare forma alla realtà, nel senso che ha prodotto effetti di portata tale da rendere davvero le nostre società sempre più frammentate, prive di legame, non solo a causa dell’individualismo caratteristico del progetto neoliberista, ma anche per via della crescita delle diseguaglianze tra i gradini alti e bassi della scala della ricchezza, e della distanza crescente tra il centro e le periferie. Insomma, la negazione della società ha prodotto una società diseguale, priva di solidarietà, tentata dai tribalismi, dall’esclusione del diverso da sé. Questo perché "la società non esiste" non significa negare che esista un sistema di relazioni tra individui: significa, più precisamente, negare che esista una responsabilità collettiva per le ingiustizie, fondata sul riconoscimento dell’interdipendenza tra le persone e della dipendenza di ognuno dalle infrastrutture sociali che consentono la vita, la crescita, il benessere. La responsabilità è sempre, in questa visione, personale, e l’unica guida dell’azione è la libertà, intesa come libertà di mercato, di iniziativa economica. Ma allora non è legittimo l’intervento dello Stato nell’economia per limitare il potere del mercato, né il sostegno offerto dai servizi di welfare. Non è legittimo nemmeno che la politica si preoccupi di ridurre le discriminazioni legate al razzismo, al sessismo, all’omotransfobia: perché l’esistenza stessa di strutture di potere che riproducono queste forme di oppressione viene resa indivisibile».

La società, invece, esiste e resiste. Com'è la situazione in questo preciso momento storico?

«Quella che mi pare abbiamo sotto gli occhi è la fine di un ciclo lungo di fiducia nella promessa di crescita e benessere del progetto neoliberista, quindi del consenso verso quel discorso che è riuscito per decenni a esercitare una vera egemonia a livello ideologico in larga parte del mondo, tanto da conquistare anche gli avversari di un tempo, cioè le forze della sinistra. Alle spalle abbiamo un susseguirsi di fallimenti: prima la crisi economico-finanziaria del 2008, poi la crisi pandemica, in cui tutte le contraddizioni del capitalismo contemporaneo sono venute all’evidenza. Oggi si torna a difendere il ruolo dello Stato. Parole come “cooperazione” o “condivisione” entrano persino nel lessico delle elite mondiali che si riuniscono a Davos. L’idea stessa di “capitalismo” torna ad essere oggetto di dibattito, dopo decenni in cui la parola era scomparsa dal discorso pubblico: invisibile come l’aria che si respira. Questo ancora non vuol dire che si stia invertendo la rotta tracciata da Thatcher. Ma che sembra possibile riaprire uno spazio per parlare di doveri collettivi per il benessere, la salute, la vita vivibile delle persone, richiamare la solidarietà come principio istituzionale, ma anche riconoscere la solidarietà che già agisce nel sociale. Naturalmente, tutto questo è oggetto di un conflitto politico».

Quali sono i segnali da lei colti di rinascita della società e della dimensione collettiva e solidale?

«Ho prestato attenzione soprattutto ai nuovi movimenti sociali: il movimento ambientalista dei più giovani, le nuove mobilitazioni femministe, alcune lotte per il lavoro come quella della ex Gin di Firenze. Mi sembra che condividano alcune caratteristiche importanti: innanzitutto il fatto di promuovere la convergenza tra diversi obiettivi di lotta, per esempio quella per il clima e quella per la giustizia sociale, la lotta contro il sessismo, il razzismo e l’omotransfobia, la battaglia per la dignità del lavoro e per la transizione ecologica. E, di conseguenza, la volontà di costruire dei “noi” solidali che siano più grandi e capienti delle singole identità, come donne, persone Lgbt, lavoratori dell’industria, giovani, eccetera. Mi pare che questi movimenti esprimano una consapevolezza superiore a quella dei partiti, anche dei partiti della sinistra, rispetto alla necessità di affrontare le molte crisi del presente, da quella economica a quella ecologica, a quella democratica, attraverso una visione complessa e mobilitazioni larghe e inclusive».

Ha scritto che la crisi della sinistra è derivata anche e soprattutto dal suo non essere stata capace di saldare le rivendicazioni di uguaglianza al riconoscimento delle differenze. Che speranze ci sono di arrivare a una ricomposizione che superi questo stato?

«L’accusa già comune che si muove alla sinistra è che abbia abbandonato la classe lavoratrice e tutta la partita dei diritti sociali per dedicarsi invece alle minoranze discriminate e ai diritti civili. C’è del vero in questo, soprattutto pensando al progressivo scollamento dei partiti eredi del socialismo novecentesco dal suo elettorato storico. Ed è avvenuto a causa della fascinazione per il mercato come guida dell’economia e norma della società che anche queste forze hanno subito sotto l’egemonia neoliberista. Oggi invertire la rotta richiede non di abbandonare le battaglie contro le discriminazioni di genere, “razza”, sessualità o altro, per tornare a lottare contro le diseguaglianze materiali. Significa, in realtà, fare le due cose insieme. Perché sono dimensioni entrambe necessarie in un programma politico che parli di uguaglianza e solidarietà, oltre che di libertà».

Il suo rapporto con Ivrea?

«Ivrea è la città in cui sono nata e cresciuta e in cui ancora vivono i miei genitori. Ho quindi innanzitutto un legame affettivo. Però sono anche sempre stata interessata alla storia singolare e piuttosto straordinaria legata all’Olivetti. È una memoria che mi accompagna fin da bambina ma anche un oggetto di interesse per me come studiosa, in particolare il comunitarismo di Adriano Olivetti».

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