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Nel 2024 metà del mondo al voto, il politologo: «La sfida è la tenuta dei regimi democratici»

Il 2024 è stato definito il Super Bowl delle democrazie: 76 Paesi vanno al voto, la metà della popolazione mondiale. Quali le sfide per la democrazia? Lo abbiamo chiesto al professor Paolo Graziano, politologo e ordinario di scienza politica all’Università di Padova l’11 marzo in Cgil apre gli incontri della scuola politica del sindacato.

Quali le sfide per la democrazia nel più grande anno elettorale della storia?

«Le elezioni di per sé non sono sinonimo di democrazia, sono solo un indicatore tra i tanti. I dati ci dicono che più della metà della popolazione mondiale vive in Paesi non democratici e che da circa un ventennio è iniziato un declino progressivo in diversi Paesi. La sfida pertanto riguarda la tenuta dei regimi democratici e va posta un’attenzione particolare ai Paesi con una democrazia consolidata nel tempo come gli Stati Uniti: con Trump, i rischi per la democrazia sono più consistenti rispetto alle elezioni del 2016».

È da poco uscito il volume da lei curato “La democrazia: concetti, attori, istituzioni”: come si misura lo stato di salute di una democrazia?

«La democrazia rappresentativa è liberale e pone al centro la libertà degli individui. I primi indicatori riconosciuti sono due: la libertà degli individui; un’efficace ripartizione dei poteri. A tal riguardo, le forme di governo possono essere diverse ma è fondamentale la tutela della piena indipendenza delle istituzioni e quindi della piena separazione dei poteri».

Quanto peserà l’astensionismo sul voto europeo?

«Fino alle elezioni del 2019 c’è stata una progressiva perdita di attenzione da parte di cittadine e cittadini; il 2019 è stato in controtendenza per una maggiore partecipazione dei giovani e anche per la presenza di partiti neopopulisti che sono riusciti a riportare alle urne chi non votava per sfiducia nelle forze politiche tradizionali. Nel 2024 la sfiducia è ancora presente, ci sono più partiti neopopulisti ma al tempo stesso non sono una novità: mi aspetto non un crollo ma una leggera flessione nell’affluenza».

La candidatura di Meloni e Schlein alle Europee può portare più italiani alle urne?

«La partecipazione di leader riconosciuti è un incentivo a partecipare, quella tra Schlein e Meloni è una sfida per la leadership nel proprio campo per entrambe: per la prima anche per quel che riguarda la coalizione con i Cinque Stelle, per la seconda anche per dimostrare che non è stata scalfita dal risultato regionale sardo. Dovrebbe portare a un incremento della partecipazione».

Vale anche per le Regionali?

«Se a livello europeo la lettura che vede la partecipazione al voto legata alla politica nazionale è corretta, per le elezioni regionali spesso non è così. L’esito elettorale in Sardegna ad esempio dipende in larga misura dalla politica regionale: da una parte c’era una frattura nel centrodestra e un’indecisione fino all’ultimo sul candidato, dall’altra una alleanza coesa attorno a una candidata di indubbio valore che ha portato il dibattito sulle opzioni di sviluppo locale».

Tornando agli Usa, per gli osservatori a decidere l’esito del voto saranno gli elettori scontenti: è così?

«In un sistema bipartitico e presidenziale come quello Usa sono quasi sempre gli scontenti a decidere le elezioni. Oggi il contesto è quello di un aumento della polarizzazione politica. Per Trump notiamo l’estremizzazione delle caratteristiche di un partito non accettata da molti simpatizzanti e sarà l’intensità di questa scontentezza a decidere le elezioni. Gli scontenti faranno la differenza e se la Haley si candiderà come indipendente potrebbe cambiare il gioco e rubare voti importanti al candidato repubblicano».

Nel suo volume sul neopopulismo, sostiene che non vada usato come termine spregiativo: mi spiega?

«Il neopopulismo è un fenomeno diffuso in tutto il mondo democratico e va compreso prima che criticato. È un mondo eterogeneo che riguarda partiti diversi, da Podemos ai Cinque Stelle, alla Le Pen. Risponde a esigenze emerse nel corso degli ultimi vent’anni non considerate debitamente dai partiti tradizionali che riscuotevano una fiducia sempre più scarsa. Il successo del neopopulismo si spiega grazie alla sfiducia crescente per la politica tradizionale, è una risposta alle richieste dell’elettorato e in diversi casi ha aiutato la democrazia. Il neopopulismo quindi non è un colpo mortale per la democrazia: è l’esito della crisi democratica durata vent’anni che può offrire strumenti alla democrazia per rispondere meglio alle richieste dell’elettorato. È solo in contesti democratici non consolidati che il neopopulismo costituisce una minaccia per la democrazia».

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