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«Accusato perché conveniva al sistema». Il presunto corvo del Patriarcato parla e si difende in aula

«In aula sembrava che tutti i sacerdoti comparsi a testimoniare stessero leggendo la stessa velina». In aula, nel processo ai presunti “corvi del Patriarcato” accusati di aver riempito la città di manifesti diffamatori contro il Patriarcato, arriva finalmente la versione di Enrico Di Giorgi.

L’ex dirigente della Montedison, 78 anni, originario di Milano, è accusato dalla pubblico ministero Daniela Moroni, titolare dell’inchiesta, di aver affisso i volantini. Insieme a lui, imputato anche Gianluca Buoninconti, accusato di essere l’aiutante. Un’udienza lunga, a tratti nervosa, con Di Giorgi costretto più volte a prendere fiato e a riposarsi. Nel corso dell’esame, però, Di Giorgi ha più volte sottolineato la sua totale estraneità alla vicenda legata ai volantini diffamatori e il suo «ingenuo» coinvolgimento nei fatti riguardanti don Massimiliano D’Antiga, l’ex parroco di San Salvador e San Zulian (testimone nel processo), conosciuto nella primavera del 2017 e il cui trasferimento deciso nel dicembre 2018 ha anticipato la comparsa dei volantini e la riduzione allo stato laicale del parroco per aver rifiutato il trasferimento.

Non solo nel corso dell’esame si è detto estraneo alla vicenda, ma Di Giorgi ha anche puntato il dito contro un «sistema» che, a detta sua, l’avrebbe additato come responsabile della vicenda.

«Non mi riconosco come Fratino», le sue parole, «i volantini non li ho messi io, probabilmente ho detto che potevano venire da fonti diverse. In quei giorni di dicembre, andavo in chiesa a San Zulian. All’uscita c’era un fermento incredibile di persone che commentavano e discutevano dei volantini. La gente raccontava anche più di quello che c’era scritto. Era una pentola in ebollizione. Venezia è una città dove tutti si conoscono. C’è un’abitudine a ragionare quasi come una congrega. Una realtà che denota estremo provincialismo».

Pettegolezzi e voci di corridoio inarrestabili perfino sui presunti scandali al centro dei volantini. E però i rapporti tra D’Antiga e Di Giorgi sono stati registrati: 600 telefonate nel giro di pochi mesi. Contatti che l’ex dirigente della Montedison, protagonista a Porto Marghera negli anni caldi delle rivolte sindacali, non ha negato.

Per Di Giorgi, però, la spiegazione della vicenda è un’altra: «È stato ricercata una persona amica del don, anziano quindi manipolabile, possibilmente foresto perché così non venivano toccati i potentati locali. Conveniva al sistema accusare una persona esterna. Questa storia è stata manipolata contro di me. Vi sembra verosimile che tutti i preti sentiti abbiano fornito la stessa versione? Roba da Minculpop». Nel mirino finisce anche l’interrogatorio fornito davanti ai carabinieri: «Il capitano mi disse che il mio più grande amico era anche il mio più grande accusatore. Disse di decidermi di dire che era il mandante e che poi ne avremmo riparlato».

Nel corso dell’udienza, è stato ripercorso anche l’incontro richiesto da D’Antiga con il Patriarca Moraglia in persona. Invitato dall’ex parroco di San Zulian, Di Giorgi era presente, come testimone. «Non sono il confidente di D’Antiga. Pensavo che la questione del trasferimento fosse risolvibile. Vista la mia esperienza lavorativa, chiesi al Patriarca del tempo per risolvere la questione. Lui mi disse che la questione durava da tempo, che io non potevo saperlo, e che era il tempo di mettere un punto. Io non ero al corrente di nulla, dissi che ero imbarazzato».

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