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In auto, bici e di corsa: così i triestini si riappropriano della nuova bretella tra jogging e bivacchi

TRIESTE L’asfalto nero luccica ancora quando il sole quasi primaverile scansa le nuvole. Sa di nuovo questo asfalto nero, con quell’odore di bitume gettato da poco. Ecco il nuovo che entra nel vecchio, anche se alla fine è solo una semplice strada: la bretella, così l’hanno chiamata, ma forse meriterebbe qualcosa in più. Un nome, un titolo, come si fa con i viali di una certa importanza. Perché questa strada, che collega il centro di Trieste a Barcola, fino alla rotonda di viale Miramare, inaugurata di recente dal sindaco Roberto Dipiazza, segna un’altra svolta per l’antico scalo e quindi per la città.

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Un continuo via vai

I triestini hanno cominciato ad appropriarsene. È un continuo via vai di chi va a passeggio, chi va a correre o chi approfitta della pista ciclabile. Con in fila gli alberi, un po’ spuntati in attesa di fiorire, e i lampioni in stile con il luogo. E poi la fontana e il marciapiede spazioso che percorre buona parte della bretella. Passano ancora poche auto qui, qualche camion di tanto in tanto, e così non è difficile sentire i treni che si avvicinano lentamente alla stazione o, dalla parte del mare, i canti dei gabbiani.

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L’entrata monumentale

Si entra dal varco monumentale di largo Città di Santos, a fianco del Silos, dove ci sono gli uffici dell’Agenzia delle dogane. L’occhio, inevitabilmente, è catturato dai magazzini del porto che fu. Grandi, possenti. Pregni di storia. Bisognerebbe chiuderli, gli occhi. Chiuderli e immaginare cosa era stato qui dentro durante l’impero austro-ungarico nella seconda metà del XIX secolo con il porto nel pieno della sua crescita. Un impulso dovuto al collegamento ferroviario con Vienna e all’espansione dei traffici con il Medio ed Estremo Oriente, spinti dall’apertura nel 1869 del canale di Suez.

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Magazzini abbandonati

L’area è infinita: 67 ettari, oggi perlopiù abbandonati, con oltre un milione di metri cubi di hangar anche questi abbandonati. Magazzini imponenti, che conservano la loro sincera e sicura eleganza, testimonianza di un’archeologia industriale marittima invidiata in tutto il Mediterraneo e il Nord Europa. Magazzini ordinatamente costruiti secondo le regole dei lagerhauser delle merci, pensate per il deposito, la conservazione e la sosta di ciò che passava per di qua.

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Edifici a un solo piano, altri a due o più piani, muniti di gru, elevatori, montacarichi ed altri marchingegni per le operazioni di carico e scarico. O anche le banchine a sbalzo sul piano stradale, di circa un metro, ideate per favorire le movimentazioni dai carri ferroviari. Davanti ai magazzini del molo Zero, a lato della bretella, prima del magazzino 26, si ammirano ancora le enormi passerelle per le navi da crociera di una volta.

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Salto nel passato

Tutto ciò oggi c’è ancora e una passeggiata lungo la nuova bretella di asfalto nero luccicante è un salto in questo passato. La fila dei magazzini si sussegue in modo ordinato, come ordinate dovevano essere le operazioni portuali. Alcuni ancora intatti, altri sembrano lì e lì per crollare a ogni alito di vento. Altri ancora hanno i tetti sfondati e le finestre in frantumi. Dalle porte spalancate si intravedono gli spazi: grandi, enormi, semi distrutti dai vandali e deturpati dai graffiti. C’è chi ha appiccato gli incendi e rubato quello che c’era da rubare.

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Il polo museale

La fila di magazzini diroccati è qualcosa di interminabile. Ma dove la strada svolta ecco apparire il polo museale: il magazzino 26, con le sue sale dedicate agli artisti triestini e che ospitano di continuo mostre, con le masserizie degli esuli e l’Immaginario scientifico. E poi, a lato e davanti, gli altri palazzi rimessi a nuovo: la Centrale idrodinamica, la Sottostazione elettrica e il Generali convention center.

Edifici che rappresentano i migliori esempi di archeologia industriale portuale: questa, prima della rotonda che dà su viale Miramare, è la parte rinnovata, popolata, viva, dove si alternano mostre, conferenze e dove sono ospitati corsi universitari. Si vedono studenti, scolaresche, turisti.

Il nulla prima

Ma prima di tutto questo c’è il nulla. Un nulla che comincia già dall’inizio del Porto vecchio, subito dietro al varco di largo Città di Santos, nella zona poco distante dal Molo quarto, dove si staglia il magazzino 2: un mastodontico hangar avvolto dall’erba alta e chiuso da un’inferriata.

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Chiuso, si fa per dire. Perché lì entrano ed escono di continuo persone. Prima una, poi un’altra e un’altra ancora. Lo fanno con circospezione, guardando attorno per assicurarsi di non essere viste. Sono migranti, profughi, senzatetto. Anche ragazzini. O intere famiglie. Afghani, marocchini. Nomadi dell’Est. Qui hanno sistemato i loro giacigli, alcuni con tanto di arredi. Quasi piccoli appartamenti, con le cose in ordine e i vestiti appesi. Dove non arriva la modernità, dove regna l’abbandono, entrano i mille volti dell’umanità disperata.

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