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L’infermiera aggredita a Trieste: «Mi hanno tirato un casco in faccia, tornare al lavoro non è stato facile»

L’infermiera aggredita a Trieste: «Mi hanno tirato un casco in faccia, tornare al lavoro non è stato facile»

foto da Quotidiani locali

TRIESTE Tre mesi dopo essere stata aggredita fisicamente da un paziente, a fine 2022 Ilaria Scheri, infermiera di 35 anni, è stata trasferita dal Pronto soccorso di Cattinara al Sistema 118, dove tuttora presta servizio di soccorso sulle ambulanze di Asugi. Casualità, «la procedura di trasferimento – spiega Scheri, infermiera dal 2010 – era già stata inoltrata e in attesa di esito positivo: ma dopo quello che ho vissuto, mi sento molto più al sicuro così». Nelle settimane immediatamente successive all’aggressione «non è stato semplice tornare a lavoro: ma, nonostante le difficoltà che affrontiamo ogni giorno tra reparti e corsie, non ho mai pensato di abbandonare».

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L’episodio che la riguarda, avvenuto a settembre 2022, ebbe molta risonanza mediatica. Cosa le accadde, esattamente?

«All’epoca ero in servizio al Pronto soccorso di Cattinara. Stavo svolgendo le mie funzioni di triage in accettazione quando un paziente, in realtà già indirizzato verso le visite di cui aveva bisogno, iniziò ad agitarsi, rovesciando a terra e lanciando per aria tutto quello che aveva a tiro. Spaventoso».

Lei riportò anche ferite?

«Sì, all’occhio. Mi tirò un casco con visiera in faccia. Mi dovettero medicare in Pronto soccorso».

E poi cosa accadde?

«Intervennero le forze dell’ordine, perché la situazione era preoccupante. Ma preferirei non scendere nei particolari perché, sostenuta dell’Azienda, sto procedendo per vie legali e devo tutelarmi».

Prima di allora le era mai accaduto di essere aggredita, o di sentirsi vulnerabile, sul luogo di lavoro?

«Mi era già capitato di ricevere qualche strattone, una spinta. Mai però fino a questo punto».

E attacchi verbali, insulti, o minacce?

«Purtroppo sono molto frequenti. Ne sono stata sia testimone che vittima, in particolare da dopo la pandemia».

Da cosa dipende, secondo lei?

«In molti casi dai lunghi tempi di attesa. Il personale è poco, costretto a turni estenuanti, e non sempre riusciamo a dare risposte rapide nei tempi che i pazienti si aspettano».

Ora che è stata trasferita e lavora al 118, si sente più al sicuro?

«Sì, anche se le mie ex colleghe al Pronto soccorso mi raccontano che, dopo la mia aggressione, sono state incrementate le misure di sicurezza. Ad esempio, è stato esteso il servizio di sorveglianza notturno. Le condizioni in cui operiamo, però, rimangono non semplici».

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