I.A. Intelligenza Assetata (e non artificiale)
L’immagine prevalente del Cloud è quella di uno spazio immateriale dove si condividono risorse informatiche su una rete digitale, più praticamente si tratta di un complesso di infrastrutture che rendono possibile l'attività online: dai nostri contenuti social allo spazio di archiviazione delle nostre vite digitali. Nella Nuvola vengono anche archiviati i grandi insiemi di dati di cui si nutre l’Intelligenza Artificiale in un unico ecosistema digitale.
Ma la Nuvola, per quanto immateriale, ha piedi i ben piantati per terra: chilometri di bobine di cavi coassiali, di tubi in fibra ottica, e poi condizionatori d'aria, unità di distribuzione dell'energia, trasformatori, alimentatori, sistemi di raffreddamento, computer, switch, router e molto altro ancora sono il fardello di materialità che la ancora saldamente a terra. Il tutto contenuto in edifici, i data center, in cui, oltre a custodire i server dove vengono archiviati i nostri dati, viene messa in comune la potenza computazionale per far “vivere” l’Intelligenza Artificiale. La Nuvola va alimentata: oggi il Cloud ha un'impronta carbonica superiore a quella di alcune nazioni, sommando data center e dispositivi in rete si stima sia responsabile del 2% delle emissioni globali di carbonio.
Ma la Nuvola è anche assetata ed i data center vanno irrigati affinché possa pascolarvi l’Intelligenza Artificiale. Letteralmente: l’acqua è un agente convettivo più efficace dell'aria e convogliarla nel reticolo dei rack dei server permette di raffreddarli più efficacemente riducendo nel contempo l’impronta carbonica. Ma la neutralità climatica non offre pranzi gratis ed a farne le spese è l’impronta idrica della Nuvola. Presto realizzare un data center, che assorbe milioni di litri d'acqua al giorno per funzionare, in aree soggette a stress idrico potrebbe non essere più possibile, per le legittime rivendicazioni degli abitanti della zona.
L’acqua di raffreddamento è acqua dolce, priva di impurità, pertanto i data center spesso competono per la stessa acqua con cui le persone si dissetano, cucinano e si lavano. Nel 2022 i data center di Google, che ospitano il suo chatbot Bard ed altre applicazioni di I.A. per i suoi algoritmi di ricerca, hanno consumato circa 20 milioni di metri cubi di acqua dolce per il solo raffreddamento con un aumento del 20% su base annua. Comunque meglio di Microsoft, i cui server ospitano ChatGPT, che ha visto aumentare del 34% il consumo d’acqua nello stesso periodo.
Oggi l’attenzione è concentrata sulla domanda energetica di questi data center: l’IPCC promuove gli sforzi globali per ridurre le emissioni ma è l'acqua la risorsa più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Ben pochi considerano come la materialità resti comunque l’afflizione di questi spazi virtuali: produrre queste infrastrutture richiede materie prime e con loro enormi quantità d’acqua.
Nell'elettronica sono utilizzati un ampio spettro di materiali, tra cui metalli di base come l'acciaio e l'alluminio, metalli preziosi come l'oro e il platino, metalli critici come l'indio e gli elementi delle terre rare, metalli pericolosi come il piombo, il mercurio o il cadmio e materiali difficili da riciclare come i polimeri contenenti ritardanti di fiamma alogenati. Ma un data center ha bisogno anche di batterie, e quelle agli ioni di litio stanno progressivamente sostituendo quelle al piombo grazie alla loro superiore densità energetica, fornita da materiali come il litio, il nichel ed il cobalto.
Ed i data center dipendono, anch’essi, dal metallo della “transizione verde” per eccellenza: il rame. Cavi di alimentazione, barre conduttrici, connettori elettrici, scambiatori di calore, unità di distribuzione dell'alimentazione solo per citarne alcuni. Qualche numero può aiutare a valutare la domanda in prospettiva: il centro dati di Microsoft a Chicago ha richiesto oltre 2.000 tonnellate di rame per la sua realizzazione. Entro il 2030, per i soli data center statunitensi, si prevede una domanda annua di rame di circa 250.000 tonnellate.
Ciononostante si parla poco del consumo d’acqua necessario allo sviluppo esponenziale di queste tecnologie: dematerializzare significa consumare, altre, materie prime ed il costo planetario di queste tecnologie ci è completamente sconosciuto. Sarebbe necessario stimare, prima di quella carbonica, la loro impronta idrica: il volume totale di acqua dolce consumata lungo l'intera catena di approvvigionamento. Perché l’impronta idrica è qualcosa di più: è una metrica che mira ad affrontare il potenziale danno ambientale e la privazione causata dall’utilizzo dell’acqua per finalità industriali.
I metalli utilizzati nel settore elettronico non solo impoveriscono i bacini idrografici locali, ma ne risultano anche responsabili del degrado delle acque a valle delle aree estrattive. Un corretto bilancio idrico prevede, oltre alla quantità d’acqua utilizzata, anche attente analisi della qualità dell’acqua che viene restituita ai corpi idrici: oggi del tutto assenti. Senz’acqua non esiste l’industria mineraria, riveste un ruolo fondamentale in ogni processo: dalla macinazione alla flottazione, ai processi idrometallurgici.
Un valore medio stima in circa 100 metri cubi l’acqua necessaria a produrre una tonnellata di rame ma non esistono dati che quantifichino il danno ai sistemi delle acque superficiali e sotterranee causato dal rilascio di metalli pesanti, di sostanze chimiche risultanti dai processi di arricchimento o dalla gestione impropria dei rifiuti minerari, per quella stessa tonnellata prodotta. Mancano i dati necessari a riportare i livelli di stress idrico delle regioni dove avvengono i processi di estrazione e raffinazione.
Realizzare queste infrastrutture richiederà, a livello globale, oltre un milione di tonnellate di rame in più all’anno, la cui estrazione aumenterà lo stress dei bacini idrici che ospitano le miniere: l'estrazione, dei metalli in genere, è un processo ad alta intensità idrica e lo sta diventando sempre più con il declino del tenore del minerale. Le compagnie minerarie cilene hanno già investito miliardi di dollari in nuovi impianti di desalinizzazione, aumentando i costi di produzione. Entro il 2027 il costo energetico per la desalinizzazione sarà secondo solo alla frantumazione del minerale superando quello metallurgico.
Gli effetti si misurano sull'impronta idrica per abitante a livello globale. Se la media globale è di 167 m3 all’anno nell’Unione Europea questo valore è di 253 m3 all’anno di cui solo 107 m3 sono il consumo locale, i restanti 146 m3 si riferiscono ad acqua incorporata in prodotti importati cioè l’impronta idrica associata al consumo di beni della popolazione europea è maggiore del volume d'acqua consumato sul territorio europeo.
Mentre nel caso del carbonio si è introdotto il Sistema europeo di scambio di quote di emissione (Emissions Trading Scheme, ETS) di gas a effetto serra per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 per l’acqua non esiste nulla di tutto ciò. Eppure il meccanismo di causa-effetto tra le catene di approvvigionamento di questi beni e gli impatti associati ai sistemi idrici, compresa eutrofizzazione, ecotossicità ed acidificazione è documentato: per comprenderne le conseguenze sociali ed ambientali basterebbe un po’ d’intelligenza, e nemmeno artificiale.