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Andrée Ruth Shammah: «Vi racconto la grande età»

Al «Franco Parenti» di Milano si rappresenta il disagio mentale degli adolescenti in Chi come me, pièce del drammaturgo israeliano Roy Chen. Firma la regia Andrée Ruth Shammah, che di questo suo lavoro intenso e applaudissimo dice a Panorama: «Le emozioni? Sono terapeutiche».

«E' stato il teatro che mi ha salvato», queste parole tratte dal nuovo spettacolo di Andrée Ruth Shammah, potrebbero essere il mantra della regista, anima di ferro e di fuoco da oltre cinquant’anni del Teatro Franco Parenti. Con Chi come me (fino al 4 maggio) dello scrittore israeliano Roy Chen, firma la sua regia più bella, sicuramente la più emozionante. Uno spettacolo che riesce ad annullare il tempo. Nella nuova sala A2A va in scena la malattia mentale degli adolescenti. Il tema più importante (e trascurato) del dopo pandemia. Il pubblico si trova immerso nella scenografia, accanto ai letti dei cinque adolescenti protagonisti, a respirare il dolore, la solitudine, la crudele fragilità, le anime ferite. Bravissimi gli esordienti: Amy Boda, Federico De Giacomo, Chiara Ferrara, Samuele Poma, Alia Stegani, che interpretano i pazienti del reparto giovanile di un centro di salute mentale. Hanno tra i 13 ai 17 anni e soffrono di disturbo bipolare, autismo, schizofrenia, attacchi di rabbia, disforia di genere.

Ma qual è il male di vivere di questa generazione, che mai come oggi si sente perduta, chiediamo alla regista, che ha curato anche l’adattamento del testo: «Non c’è solo il disagio mentale, ma anche i cosiddetti ragazzi normali vivono una situazione difficile, banalizzante. Sono privati del futuro. Sprecano il loro talento. E non mi riferisco a carriere di successo, ma chi va a teatro, alle mostre, gira il mondo scopre le pieghe nascoste, che ci saranno ancora per poco, perché a forza di essere nascoste poi spariscono, della bellezza. Andare a scovare quella bellezza che ti parla è dare un senso all’esistenza. E questo non lo vedo». Bisogna rovesciare la prospettiva: «Il tema va spostato dall’adolescenza alla Terza età. Io la chiamo: la “Grande età”, quella dell’esperienza. Gli anziani hanno la responsabilità di parlare ai giovani. Si dice sempre: “Vai dal nonno, poverino”. Ma quale poverino, dico io. Bisognerebbe dire: “Nonni andate voi dai nipoti, raccontategli la vita”».

Scrive il drammaturgo di Tel Aviv, che ha debuttato con lo spettacolo nel 2020 al Teatro Gesher di Giaffa e da allora è rimasto in cartellone, diventando un grande successo: «Gli adulti sono come gli adolescenti, ma senza la speranza». Shammah, pur senza voce dopo le tre preview, non si ferma e anche lei è d’accordo: «È vero i genitori si sono allontanati, ma forse questo è un vantaggio. Con i loro immensi sensi di colpa hanno riempito le giornate dei figli. Solo per la paura del vuoto. Ma sono loro che hanno paura e riempiono quello che credono sia il vuoto. Invece non lo è. La noia spinge a inventare, a costruire, a trovare qualcosa che piaccia veramente». È la generazione di mezzo che si dibatte, boccheggia, che non ha saputo valorizzare gli anziani e ora non riesce a parlare ai giovani. I cinquantenni indecisi, indifferenti, sovrastati da destini che non sanno più affrontare. «L’adulto, che poi non è un adulto, è stato catturato dalla logica della rappresentazione, della rappresentatività, della produttività. Questa società ha una tremenda paura della morte, teme la vecchiaia e non sa vederla come una risorsa». Lei, che nel 1972 fondò il mitico Teatro Parenti, non ha paura di niente, tanto meno di invecchiare: «Ho tenuto i capelli bianchi. Tra le mie amiche sono l’unica che non ha l’angoscia della ricrescita. Pensi alla metafora: mi tingo per nascondere la radice, per coprire l’inizio, la partenza».

In questo dialogo sulla difficoltà di esprimerci, dove lo spettatore alla fine si identifica con il ragazzo che è stato, il teatro diventa la medicina che trasforma il veleno. «È naturale che io dica che è un potente tramite per tirare fuori quello che si ha dentro. E anche questa volta con lo spettacolo è stato così. Per esempio, nella nuova sala i cellulari non prendevamo, eppure i ragazzi erano tranquilli, nessuno postava foto delle prove. Hanno vissuto per loro stessi, senza doverlo dire a tutti. L’ho trovato quasi miracoloso». Bellissimo questo passaggio del testo: «In quale altro posto una persona può discutere con se stesso ad alta voce senza che la ricoverino». Eppure dopo la pandemia non è stato facile: «Quando dicevano che il teatro non si sarebbe ripreso sono stata l’unica ad avere affermato il contrario. Ne ero certa, perché da secoli è una necessità dell’uomo. Non sono i numeri della televisione, non è l’audience, ma l’audience non lascia niente dentro le persone. Invece la gente vuole emozionarsi, anzi è aumentato il bisogno di emozioni. E noi artisti, donne, mamme, grandi vecchi, intellettuali abbiamo la responsabilità di rispondere a questo bisogno. Oggi abbiamo uno spazio enorme da colmare».

Eppure ha annunciato che questa sarà la sua ultima regia? «No, io non lascio niente. Vado oltre. Voglio fare il direttore artistico e lasciare il palco a giovani registi, che sono pronta a proteggere, aiutare. Non solo non me ne vado, ma voglio far nascere ancora più spettacoli. È un’ambizione altissima. E soprattutto non voglio abbandonare un teatro pieno di debiti. Per fare quello che ho fatto in questi anni mi sono caricata delle spese sostenute, avendo da sempre un coraggio da incosciente e buttandomi in imprese impossibili. Adesso il Comune deve allungare la convenzione. Non posso pensare che questo non accada. Tutto ciò che ho fatto nella vita l’ho fatto per aiutare il teatro. Voglio che quelli che ormai considero “i miei figli” possano continuare per altri 50 anni. Questo non è ritirarsi. È voler andare al di là della mia morte».

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