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Ramadan “for Palestine”, la sinistra scopre l’Islam. In chiave desacralizzata e anti-occidentale: che vi pareva…

Il Ramadan, “miglior tempo di tutti”, è considerato il mese lunare in cui il Corano venne rivelato a Maometto. E la pratica del digiuno che lo contraddistingue è il quarto dei precetti fondamentali dell’Islam. Celebrazione pluricentenaria di vitale importanza nel credo islamico e che però, a quanto pare, il variegato mondo culturale e politico della sinistra ha scoperto solo nel 2024. In chiave politica, ovviamente.

Sull’onda montante di decisioni assunte da istituzioni come la ormai celebre scuola di Pioltello o di richieste da parte di gruppi organizzati, come gli studenti islamici universitari che hanno formulato ad alcune Università come quella di Bologna e quella di Milano l’idea di sospendere le lezioni in occasione della chiusura del mese sacro, osservando le piazze gremite nel momento della preghiera e le polemiche seguite quanto avvenuto a Roma Est, dove per separare credenti di sesso maschile dalle donne si  è pensato di ricorrere a un abborracciato ed esteticamente sgradevole recintino, il Ramadan ha occupato il fulcro del dibattito e polarizzato le posizioni.

A peggiorare la situazione ha concorso l’onorevole senza più partito Soumahoro che ha pensato bene di incardinare una proposta di legge per rendere festività su tutto il territorio nazionale lʻĪd al-fir, ovvero il giorno in cui il mese lunare del Ramadan si conclude. La proposta, oggettivamente sgangherata e a gamba tesa, non rasserena gli animi, ha l’aroma acre della strumentalizzazione, tanto che diversi musulmani stessi, pur condividendo l’idea della istituzionalizzazione della celebrazione, hanno storto il naso nel constatare chi avesse presentato il testo di legge.

È però qualcosa di coerente con la tardiva ma strumentalissima scoperta da parte del variegatissimo mondo progressista, di ogni sfumatura di rosso e di fucsia, che nel Ramadan ormai vede solo un dispositivo politico anti-occidentale, anti-governativo, post-coloniale e vagamente intersezionale. D’altronde il calderone dei sempre nuovi e sempre più fantasiosi diritti civili ribolle inesorabile da tempo e metterci dentro qualche nuovo ingrediente appare, agli apprendisti stregoni dell’odio anti-occidentale, una buona idea.

Storia tortuosa di una mancata intesa

Uno degli aspetti salienti che i progressisti perennemente indignati obliano è quello del mancato raggiungimento di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche ai fini della istituzionalizzazione delle celebrazioni care all’Islam. In linea di massima, nonostante vittimismo e piagnoneria la facciano spesso da padrone, sovente condite in abbondanza con il sempre attualissimo allarme “razzismo” o “discriminazione”, qui nella sua variante religiosa, in Italia pur in assenza di una intesa non c’è alcun divieto nell’osservare la religione islamica e nell’officiarne i suoi riti, tanto è vero che Roma ospita una delle più grandi Moschee d’Europa.Ma la mancata intesa ha degli effetti negativi, senza dubbio alcuno. Operanti sul versante per così dire esterno e pratico della confessione religiosa quando questo si interseca con la vita civile e con il funzionamento delle nostre istituzioni.

Con buonissima pace di comitati scolastici, rettorati, gruppi organizzati di studenti universitari di fede islamica, il mancato riconoscimento del giorno conclusivo del Ramadan non è festività con portata generale, come invece avviene per celebrazioni e feste di confessioni religiose pur diverse da quella cattolica, proprio per il mancato perfezionamento di una intesa. Un inciso: non si capisce però perché le lezioni universitarie ad esempio o una scuola dove i fedeli musulmani sono consistente minoranza ma pur sempre minoranza dovrebbero andare incontro alla sospensione. Le festività delle altre religioni che hanno maturato riconoscimento mediante intesa portano alla giustificazione dello studente, non alla chiusura del plesso scolastico o dell’Università.

Intese sono state raggiunte in Italia con qualunque tipologia di Chiesa battista, luterana, evangelica, con la Tavola valdese, con le comunità ebraiche, con buddisti e induisti. Con gli islamici sono decenni che si gira a vuoto nonostante il tavolo, istituito attraverso la Direzione Generale affari dei culti del Ministero dell’Interno e il Servizio per i rapporti con le confessioni religiose e per le relazioni istituzionali della Presidenza del Consiglio, sia aperto ormai da moltissimo tempo. Sono almeno 24 anni, dalla ormai lontana istituzione ad hoc del Consiglio islamico d’Italia, che si cerca di raggiungere una intesa. Ma già quell’organismo rappresentava soltanto l’Islam sunnita. E anche questo assai diviso tra componente favorevole ai Fratelli Musulmani e un’altra componente di matrice saudita.

I continui insuccessi dei vari tentativi hanno diverse spiegazioni. Innanzitutto perché il mondo islamico italiano è diviso in una costellazione di gruppi e associazioni tra loro molto litigiosi, in perenne conflitto per stabilire chi debba rappresentare chi. Conflitti dottrinali, conflitti geopolitici (alcune associazioni sono diretta emanazione di gruppi islamisti, come i Fratelli Musulmani; non stupisce vedere in certi cortei alcuni leader storici di comunità islamiche esprimere sostegno ad Hamas), conflitti spesso dettati da antipatie personali o da antipatie tra singoli popoli. In secondo luogo perché una parte di questo mondo teme che una intesa significhi tracciabilità ed emersione alla luce dei finanziamenti provenienti da determinati Paesi, o, peggio, gruppi islamici.  Da ultimo, la non banale difficoltà di sintesi tra ordine costituzionale italiano e alcuni, non secondari, aspetti dottrinali islamici.

Quindi, questo approccio di riconoscimento delle festività facta concludentia da parte di istituzioni o la proposta di legge di Soumahoro, con il solito appoggio della sinistra e dei “valori” del multiculturalismo, appaiono più che altro una manovra, in un momento storico ritenuto propizio per ovvie ragioni internazionali, per capitalizzare, ovvero godere dei benefici di una intesa senza dover rispettare gli elementi cardine della nostra liberal-democrazia e cioè senza dover dare alcuna garanzia in termini di rispetto dei principi costituzionali e di trasparenza nei finanziamenti ricevuti.

Il Ramadan utilizzato come paradigma dell’odio anti-occidentale

Leggendo un post della scrittrice Valeria Parrella, apparso alcuni giorni fa su X e secondo cui «Il Ramadan quest’anno è più importante per ciascuno di noi, atei o di altre confessioni, perché sappiamo che in quella rinuncia, in quella preghiera, in quel rivolgersi al divino, c’è una richiesta di aiuto cogente per il popolo palestinese, dal cui dolore non possiamo distrarci» emergono alcuni elementi che ci aiutano a mettere a fuoco il vero punto della questione.

D’altronde ho difficoltà a ricordare simili richieste, così pressanti, così vigorose, così coordinate, di chiusure di Università o di scuole o di riconoscimento delle festività islamiche negli anni 2021, 2022, 2023, anni in cui la massiccia presenza demografica di persone aderenti all’Islam in Italia era già consolidata. Eppure solo in questo scampolo di 2024, sembra che sia stato, epifanicamente, scoperto il Ramadan.

Da un lato, certamente, si registra l’intersezione tra post-colonialismo anti-occidentale, l’odio per il capitalismo e per la aborrita civiltà euro-americana e nei confronti di Israele, considerata emanazione di questa; il Ramadan non più quindi festività vestita del suo reale significato, ma dispositivo di estensione del conflitto contro le istituzioni borghesi, occidentali e politicamente sgradite. Una considerazione che vale in generale per l’Islam, de-sacralizzato e letto solo nella sua dimensione di forza che resiste all’occidente. Sovente in armi.

Gettato alla rinfusa nel calderone delle rivendicazioni dei diritti, delle libertà, di quel bulimico postal market degli enunciati sloganistici presentati come diritti civili e fondamentali, anche il Ramadan, per una parte della sinistra a corto di mitemi e riferimenti, non ha più alcunché di sacro ma diviene solo una testimonianza di acredine contro la società occidentale. Ci erano apparsi paradossali i Queers for Palestine che abbiamo visto sfilare nei cortei pro-Hamas, ma ecco che ormai pure il Ramadan è stato risucchiato in quella gelatinosa broda, a discapito degli stessi credenti islamici.

C’è in questo momento, in una vasta parte della sinistra italiana, e utilizzo come pietra angolare il ragionamento della Parrella non volendolo assolutizzare ma solo perché sintetizza questa lettura politica dell’Islam fondendolo a certe derive anti-coloniali e di dirittocivilismo esasperato, una discesa nel baratro del tentativo di appropriazione di elementi sacrali, de-sacralizzati e usati alla rinfusa come strumenti di conflitto.

È piuttosto surreale scoprire come e quanto i solerti fustigatori del cristianesimo e della Chiesa, quelli che nel nome di un artificioso e presunto ateismo hanno cercato di inquinare, avvelenare o semplicemente irridere il senso di sacro, di misticismo, di identità e di metafisica, quando riferibili alla tradizione occidentale, ora scoprano addirittura ‘in quella rinuncia, in quella preghiera, in quel rivolgersi al divino’, rappresentato dal Ramadan, un nuovo programma di sacro e di religioso, innervato nel corpaccione di una politica fatuamente innamorata di esotismi, il cui unico punto palese e vivificato è l’odio per l’occidente.

Ha ragione Stefano Cappellini che da sinistra, sulle pagine di Repubblica, chiede polemicamente “perché è di sinistra scagliarsi contro un prete che contesta il diritto all’aborto mentre è considerato di destra puntare il dito sulla segregazione delle donne durante le preghiere islamiche?”. D’altronde, non è che per l’Islam la considerazione dell’aborto sia poi molto più liberale, ma questo indigna meno, anzi non indigna per niente. Come non indigna per nulla la considerazione che l’Islam nutre per l’omosessualità.

Incredibili, incresciosi doppi standard, “spiegati” dalla contingente strumentalità dell’aver voluto trovare per via nuovi, numerosi, ipotetici compagni di giochi e di risentimento contro il modello occidentale. E però non abbiamo bisogno di quella preghiera, di quel rivolgersi al divino, per trovare continenza, sacro, umiltà, forza, presenza nel mondo sapendo che oltre il mondo si stende anche altro. Ne ‘L’ombra e la grazia’, Simon Weil scrive ‘non dobbiamo acquistare l’umiltà. L’umiltà è in noi. Soltanto, ci umiliamo dinanzi a falsi dèi’.

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