Il triestino Mayer e i suoi 40 anni in Cina
TRIESTE Lo spirito d’avventura era da sempre nel suo dna. «Ero un ragazzo che voleva scoprire il mondo», confessa Claudio Mayer, sul traguardo degli ottanta, un “mulo” ben conservato, ingegnere chimico rientrato a Trieste dopo aver speso praticamente metà della sua vita (quarant’anni per semplificare) in Cina prima da manager e poi come imprenditore.
«Da piccolo mi piaceva sparire, racconta Mayer – ricordo una volta in vacanza in montagna a Pieve di Cadore. Non mi trovarono per ore, vagavo per i boschi cercando qualcosa... I miei genitori presero paura e io invece presi qualche ceffone».
E ancora adesso Claudio Mayer tenta di scappare, senza neanche accorgersene, dalle domande ma poi capitola e risponde. L’intervista è un percorso troppo breve. «Forse ci vorrebbe un libro», annuisce sorridendo. Magari un Bignami per sintetizzare. C’è troppa Cina da raccontare, la sua Cina ma senza furore.
Partiamo dalle sue origini...
«Le mie origini sono miste, come tanti che vivono a Trieste. I nonni paterni erano ebrei, ungheresi e della Boemia, la famiglia di mia madre invece slovena, del Carso».
Fughe a parte, com’è stata la sua giovinezza?
«Direi normale. Abitavamo in un appartamento all’angolo tra via Maiolica e Largo Barriera. Mio padre era un commerciante di legnami. Solita trafila, scuole elementari, medie e quindi liceo scientifico. Ero bravino, avevo 8 in filosofia e 8 in fisica. All’università scelsi ingegneria ma ero indeciso sulla specializzazione. Allora misi dei foglietti in un bussolotto. Puntai sull’ultimo estratto e uscì chimica».
Anni di grandi cambiamenti nelle università, vero?
«Sì, posso dire che c’ero anch’io durante la rivoluzione culturale del ’68, io e mio fratello Tullio. Io e il mio amico Piero Torresella avevamo costituito anche un centro democratico studentesco. Poi il ciclone, erano anni di grandi cambiamenti. Cortei, assemblee, occupazioni. Un movimento che ha cambiato il mondo liberalizzando usi e costumi. Poi c’era chi era più e chi meno estremista. Ovviamente guardavamo alla Cina di Mao Zedong e Lin Piao, era quello il modello».
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Un predestinato....
«In un certo senso sì ma non potevo immaginare ancora che c’era la Cina nel mio futuro. Gli anni Sessanta erano quelli della rivoluzione culturale, ma fino al 1976 quando morì Mao Zedong, trapelava poco da Pechino».
Il suo primo approccio con il mondo del lavoro?
«Feci per un periodo il supplente all’Istituto d’arte. Poi mandai curriculum a varie aziende. Mi risposero la Cafaro di Brescia e una società che costruiva impianti idroelettrici in Africa. Speravo mi prendesse quest’ultima, avrebbe appagato il mio spirito di giramondo e invece finii alla Cafaro. Nel 1973, attraverso un amico di famiglia, Giorgio Rosso Cicogna, mandai il mio curriculum anche all’Eni. Mi rispose la direzione per l’estero e decisi in un nanosecondo. Dopo due anni di addestramento in varie aziende del gruppo, nell’estate del ’75 ebbi il primo incarico temporaneo all’estero per sostituire il dirigente dell’ufficio Eni di Varsavia. La mia prima esperienza da solo all’estero con l’Eni. Al rientro dalla Polonia fui informato che, attraverso vari canali, un importante concorrente americano della “Nuova Opinione” stava negoziando un contratto per la cessione della tecnologia per la produzione di macchinari usati nell’industria petrolifera, pertanto la società fece dei passi per partecipare a questa gara. Dato che era molto difficile in quel periodo ottenere visti per andare in Cina, tranne per partecipare alla fiera campionaria di Canton che si teneva due volte l’anno, decidemmo di andarci per trovare le persone giuste che ci potessero dare un invito per arrivare a Pechino. Una volta nella capitale prendemmo contatto con i funzionari incaricati del progetto e riuscimmo ad avere la richiesta per presentare un’offerta. Rientrati in Italia la “Nuova Opinione” preparò l’offerta e la presentai a gennaio ai funzionari incaricati. In quei giorni morì Zhoau Enlai. Accadde di tutto e di più, ci fu una mezza rivoluzione. Morì anche Mao a ottobre e poco dopo ci fu una sorta golpe che cambiò la Cina».
Com’era la Cina dell’epoca?
«Un mondo a parte, inimmaginabile. Erano proibiti i cartelloni pubblicitari. Niente auto, solo un fiume di bici. Quando sono arrivato la gente mi fermava per strada per farmi domande....».
E con la lingua come se la cavava?
«Male. Penso tuttora di sapere poco più di dieci parole, quelle che servono per spostarsi quando giri per affari. Per il resto mi sono sempre affidato agli interpreti, io parlo bene l’inglese e mastico un po’ di francese e tedesco. Ho provato a studiare il cinese, ma ci voleva molto tempo e io non lo avevo. Ho seguito solo 4 lezioni».
Ma la parentesi all’Eni durò poco, lei già scalpitava. Non era forse tanto avventurosa per uno come lei...
«Il motivo è un altro. Mi ero reso conto che per fare carriera all’Eni dovevi essere figlio di... Quando nel ’76 l’Eni mi propose di andare a Pechino per aprire l’ufficio che gestisse lo sviluppo dei contratti, io decisi di rinunciare e dopo diedi le dimissioni per trasferirmi in una società privata con sede a Milano che lavorava con Russia e Cuba».
Non aveva proprio pace...
«No. Dopo tre anni lasciai anche questa società per mettermi in proprio nell’80 a Milano con una società di consulenza. Era difficile e scomodo restare in Italia, per cui mi stabilii a Hong-Kong dove nell’83 aprii la Deadalus per rappresentare molto aziende che lavoravano in quel settore. Quando sono sbarcato in Cina non c’era nessuno, non esisteva la concorrenza. Pochissimi gli stranieri. Come dire, l’uomo giusto al posto giusto. Vendevo macchinari per diversi tipi di industrie, nel ramo della ceramica, alimentare e tessile. Nel 1986 riuscii a cedere anche un laminatoio alla Danieli. Nel complesso c’era un giro d’affari ragguardevole, da circa 40-50 milioni di dollari l’anno, che nel 92-93 arrivò fino a 120».
Una manna...
«In Cina gli anni buoni purtroppo si alternavano a quelli cattivi, si andava a cicli di 18 mesi. Nel frattempo la Cina era cambiata, il passaggio graduale da industria di Stato a industrie private. Deng Xiaoping ne aveva fatto un Paese moderno, era una persona pragmatica, diceva che non importa che il gatto sia bianco o nero purché catturi il topo».
Ora sarà un pensionato d’oro...
«Mah, a dire il vero prendo la minima...Ma ho dei risparmi, non mi lamento. Quando sono rientrato a Trieste nel 2018 ho acquistato una casa in Cavana e una barca. Vivo tra Trieste e Milano dove lavora mia moglie».
Quasi quarant’anni in Cina, è stato difficile ambientarsi?
«Non mi sono ambientato nel senso che non ho messo su una famiglia in Cina, ma si può lo stesso vivere molto bene. Ho vissuto diciotto anni a Hong-Kong dove sei giorni la settimana solo lavoravo e il settimo lo usavo per gli spostamenti e altri diciotto a Shanghai dove c’è un altro tenore di vita rispetto alle altre città cinesi. Una buona offerta culturale, amicizie, tutti che parlavano l’inglese e anche una comunità italiana. Mi sentivo come a casa. A Shangai tutte le domeniche c’è una sorta di mercato, i genitori vengono a promuovere i propri figli per il matrimonio senza però portarseli dietro. Se sei straniero sei avvantaggiato, pensano che tu abbia soldi».
È rimasto affascinato dalla cultura orientale e dalle loro usanze?
«Della loro cultura ho capito qualcosa ma non l’ho assorbita. Si parte da una base culturale troppo distante da noi».
E il cibo?
«Il loro cibo lo adoro, come quello thailandese ma bisogna andare a Milano per trovare quella qualità. Qui non c’è».
Se dovesse scrivere la mia Cina, da dove e come inizierebbe?
«Non sarebbe facile, la Cina in cui ho vissuto nei primi anni non è certo la Cina di adesso che è diventata uno dei paesi più capitalisti al mondo a cui piace ostentare la ricchezza. Poi si deve sottolineare che il cinese ha un grande complesso di superiorità. Sa come ci chiamano a noi triestini quelli che vivono qui? Gli stranieri, questo dice tutto».
Ma la Cina è davvero così vicina?
«Pare proprio di sì, basta guardarsi attorno. Stanno comprando bar, negozi, di tutto. Perfino porti. È un dominio commerciale. È un’invasione pacifica, ma sempre invasione è. Si è sempre espansa senza guerre, allettava i paesi vicini ad allearsi. Andiamo incontro a un mondo bipolare dove resteranno due superpotenze Stati Uniti e Cina con l’Europa legata al carro dei primi e la Russia dei secondi. Ma con il tempo, non so quando, la Cina prenderà il sopravvento».
Commercio e traffici: è stato un danno per l’Italia l’annullamento dell’accordo della Via della Seta?
«Ricordo quando l’ex ministro Di Maio fece l’annuncio a Pechino. La perdita è relativa. Quante navi cinesi vediamo nel porto di Trieste? Poche. Tuttavia i cinesi sono lenti e inesorabili, non si fermano. Guardate com’è finita con il Porto di Atene, se lo sono preso».
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Come ha vissuto il periodo del Covid, era ancora in Cina?
«Per fortuna no, ero già rientrato. E non l’ho neanche mai preso, che io sappia. C’è però un buffo aneddoto. Mandai subito una cassa di mascherine ai due miei amici che erano là, quando il Covid arrivò in Italia restammo noi senza protezioni e loro ricambiarono il favore. In Cina non era semplice vivere durante la pandemia, potevi uscire solo due volte la settimana per fare la spesa, ogni stabile ha un portinaio che aveva il compito di controllare chi sgarrava. Ma ero in Cina negli anni Duemila quando scoppiò l’epidemia di Sars. Sono subito tornato in Italia e ripartito con mia moglie per le Maldive».
E Trieste l’ha trovata cambiata?
«No, non l’ho trovata tanto cambiata, ma sarebbe un discorso lungo... Direi che c’è meno offerta culturale rispetto a Udine, per esempio. Per non parlare della rete commerciale, qui non riesco a comprare quasi niente, mancano i grandi negozi...».
Un’ultima curiosità....
«Dica pure».
Un uomo con il suo spirito di avventura quante volte avrà letto “Il Milione” di Marco Polo?
«Neanche una volta, non so nemmeno se è mai stato in Cina.... Prediligo altre letture, apprezzo i libri di Renata Pisu». Forse il nuovo Milione potrebbe scriverlo lui, Claudio Mayer. Pensionato benestante. —