C’è ancora domani
Perché vederlo?
Non andate a vederlo se pensate di trovare un capolavoro cinematografico. Né se le vostre aspettative sono focalizzate sulla ricostruzione storico-sociologica della vita quotidiana del dopoguerra.
Andate a vederlo per ricevere pochi ma necessari strumenti per capovolgere la condizione di sudditanza femminile alla cultura maschilista becera e violenta che ancora oggi – incredibile, vero? – condiziona il lessico di molte coppie.
In un percorso narrativo in bilico su quel crinale che separa il dramma da una esilarante comicità in cui ogni donna, con sfumature e proporzioni variabili – sociali, economiche e storiche – potrebbe riconoscersi, la Cortellesi attraverso Delia, madre di una ragazza e due bambini, teppe come pochi, alle prese con un marito violento, un suocero infermo da servire e riverire e mille lavoretti per contribuire malamente a sbarcare il lunario, riesce a tratteggiare i riferimenti necessari per stra-volgere quella condizione mortificante di subalternità fisica e psicologica. Mettendo al primo posto non la sapienza, non la conoscenza, non l’istruzione, non la condizione economica familiare (ed è bravissima nell’offrire spaccati sociali eterogenei, dal nucleo familiare ricco a quello più povero, tenuti assieme dalla mortificazione femminile) ma badate bene, l’autonomia finanziaria, la capacità di disporre del denaro guadagnato con il proprio lavoro, strumento necessario per rendere manifesta la propria assertività. E in modo raffinato, in quanto implicito, lo tratteggia attraverso la tipologia di comunicazione paritaria che passa fra l’amica, che gestisce con successo un banco di frutta e verdura al mercato, e il proprio marito. O quella fra la titolare di una merceria, donna single e di mezza età, e il fornitore di cerniere zip, restio, ma solo inizialmente in quanto privo di alternative, a incassare l’assegno firmato da una donna e non da un uomo!
(Pecunia non olet, avrà detto a malincuore).
E poi, l’atto di coraggio, inteso come azione sorprendente, inaspettata, forte, necessaria, per imprimere la propria volontà oltre le aspettative del sentire comune.
Ecco, in questo la Cortellesi è stata chiara, inequivocabile, in due occasioni che definiscono la similitudine delle dinamiche comportamentali, siano esse riferite a un micro-sistema come quello familiare, siano esse riferite a un macro-sistema, come quello sociale.
Gli atti di coraggio inorgogliscono, potenziano la consapevolezza di sé, rendono più forti, rivelano la spada, quella in grado di affettare anche l’aria, che ognuno di noi possiede, spesso senza esserne a conoscenza.
A patto però che ci sia un input esterno, ciò che in sociologia viene definita etero-referenzialitá, nel senso più letterale del termine: fare riferimento all’altro da sé per scoprire un mondo altrimenti possibile.
E la Cortellesi affida il ruolo dell’altro agli americani, gli americani in quanto alleati, alleati per la liberazione dal nazi-fascismo. Lo fa offendo due scenari, uno intimo, uno pubblico.
Delia ricorre a un soldato americano, distributore di cioccolata, giovane, di pelle nera e dal sorriso perfetto e brillante per fare esplodere con un ordigno il bar del promesso sposo della figlia che aveva già dato segnali di prepotenza machista. Salta il bar, salta anche il matrimonio per inaspettata indigenza del giovane. È la liberazione preventiva di una giovane ragazza ad opera di una madre che è dovuta ricorrere a un atto di coraggio, estremo, perché l’interruzione di un modulo culturale che rischiava di autoperpatuarsi avesse luogo.
Ma gli alleati sono anche sullo sfondo delle elezioni del ’46, dove per la prima volta le donne sopra i 25 anni hanno esercitato il proprio diritto al voto e contestualmente reso manifesta la loro esistenza politica con un orgoglio senza pari.
Il film della Cortellesi non è un film storico. È un film di assoluta contemporaneitá politica. O meglio, coglie il pretesto storico per intavolare con delicatezza un dialogo intimo con quelle donne ferite e umiliate a cui dice poche e semplici cose: ricostruisci te stessa interrompendo un sistema culturale che ti incatena privandoti della libertà.
Per farlo hai bisogno di:
a) autonomia finanziaria;
b) un riferimento che ti faccia vedere la realtà possibile da un’altra prospettiva;
c) un atto di coraggio che ti inorgoglisca rendendoti consapevole del valore che hai dentro.
La sudditanza psicologica e la violenza di genere non sono quadri in esposizione di un periodo storico che guardiamo da lontano. Serpeggiano ancora oggi in modo trasversale nelle sacche nascoste di un tessuto sociale eterogeneo. Sacche che la cronaca nera in un tempo ormai scaduto consegna tragicamente all’evidenza. A poche settimane dal 25 novembre, invece di fare flash mob e di dire No alla violenza come criceti prigionieri di un loop, si dovrebbe dire cosa e come fare per essere per tutte quelle donne vittime di soprusi quotidiani, “l’alleato americano”, o meglio ancora quell’elemento di etero-referenzialitá, perché vengano garantiti:
l’autonomia finanziaria attraverso il lavoro; il supporto psicologico, attraverso i consultori, per quell’atto di coraggio necessario a ricostruire se stesse ricomponendo la propria dignità.
Ieri ne parlavo con una mia amica. Mi diceva che in questi giorni ha programmato di andarlo a vedere, non da sola come fa di solito, ma con la figlia adolescente, proprio per i temi trattati del film. È la risposta più bella che una madre avrebbe potuto dare.